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“SHAUN, VITA DA PECORA” 

Un film d’animazione godibilissimo a tutte le età in cui si ride fino alle lacrime e ci si commuove.

                           Shaun, Vita da pecora Folm - Locandina

La pecora Shaun e i suoi amici decidono di prendersi un giorno di riposo alla fattoria e fanno addormentare il fattore (un gioco, per delle pecore). Ma la roulotte in cui il fattore riposa si avvia da sola sulla strada che porta alla città, e in seguito a una contusione l’uomo subisce un trauma che gli fa perdere completamente la memoria. Shaun e compagni, inseguendo la roulotte, arrivano a loro volta in città, ma poiché il fattore è prima ricoverato in ospedale, poi diventa parrucchiere di grido (grazie alla sua abilità di tosatore), le pecore faticano a trovarlo. Riusciranno a riportare il loro amico alla fattoria e a riprendere la loro routine?
Tratto dall’omonima serie televisiva di successo planetario, Shaun, vita da pecora – Il film è un classico prodotto dallo studio di animazione Aardman (come Wallace & Gromit, per intenderci) realizzato in claymation, cioè con creature di plastilina filmate in stop-motion. Ciò che caratterizza le produzioni Aardman, oltre la tecnica, è lo humour britannico che si esprime senza parole, attraverso azione, espressioni, situazioni comiche. Shaun, vita da pecora è l’ennesima conferma di quel talento: ci si meraviglia per l’inventiva inesauribile e la capacità di realizzare scene di slapstick degne di Chaplin – memorabili quella al ristorante, in cui le pecore, travestite da esseri umani, cercano di farsi servire il pranzo (e addentano i menù), o quella del coro improvvisato “a cappella”.
Ogni personaggio è fortemente caratterizzato, a cominciare dal geniale e carismatico Shaun, per proseguire con tutti i personaggi della serie – il fattore, il cane Bitzer, le pecore gemelle, Hazel e Nuts, la grassa Shirley, Timmy e la sua mamma con i bigodini. Ma ci sono anche personaggi nuovi ed efficaci cme l’accalappiatore Trumper e la randagia Slip.
Il ritmo comico, spesso quello della farsa, è impresso dalla regia e dal montaggio, ma comincia evidentemente in una sceneggiatura che non si limita ad allungare un episodio della serie, o ad allinearne una decina, ma costruisce una storia con pathos e humour. Il risultato è un film d’animazione godibilissimo a tutte le età in cui si ride fino alle lacrime, ci si commuove, e si esce di sala saltellando sulla canzone dei titoli di coda.

da Venerdì 20 a Mercoledì 25 febbraio Spettacolo unico ore 17:15

 “NON SPOSATE LE MIE FIGLIE” Spettacoli ore 19:15 e 21:15.

Non sposate le mie figlie -Film - Locandina

Commedia francese che gioca sull’identità, la differenza, la religione, il razzismo e naturalmente i matrimoni misti.

Claude e Marie Verneuil sono una coppia borghese, cattolica e gollista. Genitori di quattro figlie, tre delle quali coniugate rispettivamente con un ebreo, un arabo e un asiatico, vivono nella loro bella proprietà in provincia e pregano dio di maritare la quarta con un cristiano. La loro preghiera viene esaudita. Euforici all’idea di celebrare finalmente un matrimonio cattolico, ignorano che Charles, il futuro marito della figlia minore, ha origini ivoriane. Alla delusione si aggiunge l’animosità del padre di Charles, ex militare intollerante e insofferente alla colonizzazione europea dell’Africa. Tra provocazioni, alterchi e vivaci scambi di vedute, l’amore avrà naturalmente la meglio.
Nel 1967 in America usciva il film di Stanley Kramer, Indovina chi viene a cena?, una storia d’amore ‘in bianco e nero’ (ma a colori) che sceglieva il registro della commedia per parlare di un conflitto in quegli anni tutt’altro che risibile: l’incrocio sessuale delle razze. Se il padre di Spencer Tracy doveva lottare con la propria coscienza e col medico nero di Sidney Poitier, che chiedeva consenso e benedizione per sposare la sua Joanna, monsieur Verneuil ha deposto le armi e accettato di buon grado i matrimoni delle sue figlie con l’altro, con gli altri. A Claude e Marie Verneuil non resta adesso che una cena in città in cui accomodare l’ultimo genero, finalmente cattolico e già adorato perché si chiama Charles, come il presidente de Gaulle. Ma il loro Charles, nero, ivoriano e in procinto di sposare la loro quarta figlia, è la goccia che fa traboccare il vaso e il razzismo ordinario che sta alla base del successo della commedia multietnica di Philippe de Chauveron.
Commedia francese che gioca sull’identità, la differenza, la religione, il razzismo e naturalmente i matrimoni misti, parlando ai comunisti e ai gollisti, o più genericamente alla sinistra e alla destra. Muovendosi nemmeno troppo sottilmente tra immigrazione e integrazione, tra antisemitismo e globalizzazione, materia di ardente attualità nella società francese, Non sposate le mie figlie esibisce cliché e tabù e sviluppa l’opinione rimarcata dal personaggio di David Benichou secondo cui siamo tutti in fondo un po’ razzisti. Soprattutto gli uomini, le donne viceversa nel film sembrano meno permeabili ai pregiudizi e istintivamente inclini alla tolleranza e all’alterità. Grande successo della stagione cinematografica francese appena trascorsa, Non sposate le mie figlie ha raccolto (ap)plauso e consenso anche fuori dai confini nazionali, in virtù della regia, della sceneggiatura, della performance attoriale ma soprattutto del tema sociale svolto, che trova eco in altri territori di immigrazione.
Lontano dalla temperata ironia di Indovina chi viene a cena?, Non sposate le mie figlie condivide nondimeno col film di Kramer, uno, due, tre e quattro generi rassicuranti. Generi a cui le due commedie assicurano un normale statuto sociale e professionale, ieri nel segno di un avvenuto integrazionismo kennedyano, oggi in quello dell’immigration choisie (l’immigrazione selettiva e discriminatoria), predicata da Nicolas Sarkozy durante la campagna presidenziale del 2012. Immigrazione che privilegia i lavoratori qualificati e utili all’economia nazionale, proprio come i generi di monsieur Verneuil, imprenditori, avvocati, banchiere, attori, che dimostrano di essere persone importanti, di fare cose importanti, che rassicurano le convinzioni civili dei suoceri e dei consuoceri, neanche a dirlo ricchi, borghesi ed evidentemente intolleranti ai francesi colonialisti e sfruttatori.
Intorno a un tavolo e davanti a un bicchiere di vino francese si risolvono poi le contraddizioni di questa commedia corale, che predica una chance (gli immigrati sono francesi come gli altri e hanno gli stessi diritti degli altri, il matrimonio è una cosa buona e bella e tutti siamo fratelli) e poi bazzica un patriottismo un po’ desueto, forzando tout le monde a dichiarare l’orgoglio nazionale con la mano sul cuore. Non sposate le mie figlie alleggerisce con la risata ecumenica l’inquietudine e le contraddizioni che agitano la società francese, ‘celebrando’ col matrimonio un sentimento di disagio condiviso. È il razzismo partecipato a renderci davvero simili. Integrazione raggiunta insomma, non contro il pregiudizio ma grazie al pregiudizio.

Martedì 24 febbraio

Chiusura per riposo settimanale

 

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