Festival Giornalisti del Mediterraneo Otranto 2025: femminicidio, suicidio giovanile e mafia

Di Davide Tommasi

Festival Giornalisti del Mediterraneo a Otranto: tre panel tra femminicidio, suicidio giovanile e mafia

Otranto, 4 settembre 2025 – Nel cuore del centro storico di Otranto, Largo di Porta Alfonsina ha ospitato ieri sera la nuova edizione del Festival Giornalisti del Mediterraneo. L’evento, realizzato in media partnership con ANSA, Radio Vaticana e Vatican News, ha affrontato temi sociali di grande attualità e urgenza: femminicidio, suicidio giovanile e faide mafiose. Il festival si conferma così non solo come momento di approfondimento giornalistico, ma anche come impegno civile.

Femminicidio e giustizia: prevenzione, pena e verità mancanti

Il primo panel, moderato da Roberta Grassi del Nuovo Quotidiano di Puglia, ha analizzato le lacune normative e le prospettive di riforma in tema di violenza di genere.

Il magistrato Valerio de Gioia ha richiamato la necessità di una riforma organica e tempestiva, sottolineando il ruolo dell’ergastolo non solo come punizione, ma come strumento preventivo per proteggere le vittime.

Il giudice Salomè Bene ha ribadito che la certezza della pena è essenziale per interrompere il ciclo della violenza, mentre il criminologo Andrea Feltri ha evidenziato come il 75% degli omicidi affettivi abbia come vittime donne e che molti casi di femminicidio rimangono sommersi, in particolare quelli legati alla pratica della lupara bianca.

Feltri ha inoltre sottolineato l’importanza di intervenire già nelle fasi iniziali della violenza, come gelosia e controllo ossessivo. Infine, Paolo Miggiano ha ricordato che solo la durezza della pena può prevenire l’escalation di comportamenti violenti.

Dal primo panel è emersa con chiarezza una consapevolezza fondamentale: prevenire la violenza è possibile. Ma perché questo accada davvero, è necessario un cambiamento culturale e operativo profondo, che richiede responsabilità condivise, scelte coraggiose e un cambio di prospettiva radicale. Non basta più reagire a fatti compiuti, non è sufficiente intervenire quando il danno è ormai irreparabile. Serve una capacità concreta di anticipare il rischio, di intercettare i segnali e di attivare risposte tempestive ed efficaci.

Ciò implica una revisione e un potenziamento dell’intero sistema: dalle misure cautelari, che devono essere adeguate e attivate con tempestività, all’uso intelligente degli strumenti tecnologici, come il braccialetto elettronico, che va inteso non come una semplice barriera difensiva, ma come un vero e proprio allarme preventivo, in grado di attivare immediatamente una rete di intervento.

Fondamentale è anche il tema del coordinamento tra tutti gli attori coinvolti: magistratura, forze dell’ordine, servizi sociali, centri antiviolenza, sanità, scuola. Solo una rete realmente integrata e comunicante può garantire una presa in carico efficace, evitando che i casi si perdano tra le maglie della burocrazia o delle competenze frammentate.

Particolarmente significativa è stata l’attenzione rivolta ai minori, spesso trattati come comparse silenziose nei contesti familiari segnati dalla violenza. È necessario ribadire con forza che i bambini e le bambine coinvolti non sono spettatori, ma vittime a pieno titolo, e come tali devono essere riconosciuti e protetti. La loro tutela richiede strumenti specifici, percorsi dedicati e professionisti formati, capaci di leggere la complessità della loro esperienza e di offrire risposte adeguate.

In definitiva, il messaggio che emerge da questo primo panel è chiaro: la violenza si può prevenire, ma per farlo servono strategie strutturate, tempistiche certe, valutazioni tecniche rigorose e una volontà politica e istituzionale forte.

La tutela delle vittime – e in particolare dei minori – non può più essere rimandata o affidata all’improvvisazione. È una priorità assoluta, una responsabilità collettiva, un indicatore della nostra civiltà.

Il silenzio del suicidio giovanile: quando la fragilità chiede ascolto

Commovente e intensa, la seconda tavola rotonda – moderata da Flavio De Marco, direttore del Corriere Salentino – ha affrontato uno dei temi più delicati e spesso taciuti della società contemporanea: il suicidio giovanile.

A dare voce al dolore è stata Annamaria Giannetta, madre di un ragazzo che si è tolto la vita nel 2002. Con grande forza, ha condiviso il proprio percorso di lutto e rinascita, raccontando la nascita dell’associazione Figli in Paradiso, fondata a Otranto per sostenere le famiglie colpite da tragedie simili.

Il psicologo Antonio Loperfido, esperto di adolescenza, ha evidenziato il ruolo cruciale dei social media nel generare dinamiche di emulazione, isolamento emotivo e pressione psicologica, soprattutto tra i ragazzi più vulnerabili.

Particolarmente incisivo l’intervento del penalista Antonio La Scala, che ha denunciato l’assenza di strumenti giuridici realmente efficaci per contrastare chi istiga al suicidio online:

“La rete è diventata un’arena senza regole, dove si muove indisturbata anche la violenza psicologica più subdola. Le norme attuali non bastano: servono nuove leggi e una strategia di tutela preventiva”.

La Scala ha invocato una riforma penale che preveda responsabilità aggravate per l’uso doloso o colposo delle piattaforme digitali, e ha ribadito l’urgenza di introdurre l’educazione digitale come materia obbligatoria nelle scuole, per aiutare i giovani a sviluppare strumenti critici e difese psicologiche.

A chiudere il panel, l’avvocato Carlo Ciardo, che ha posto una riflessione scomoda ma necessaria:

“Esiste una responsabilità civile – oltre che penale – da parte delle piattaforme e degli adulti. L’omissione educativa è una colpa che pesa quanto l’azione”.

Un appello chiaro, condiviso da tutti i relatori: ascoltare i segnali del disagio, prima che sia troppo tardi, è un dovere di tutti – famiglie, scuole, istituzioni.

In conclusione, il secondo panel ha restituito una riflessione profonda su un tema complesso, affrontato con la necessaria delicatezza ma anche con la determinazione di chi sa che nominare il dolore è il primo passo per affrontarlo. Parlare di violenza, lutto, trauma e isolamento non significa indulgere nella cronaca o nel sensazionalismo, ma riconoscere i segnali, dare dignità a chi vive queste esperienze e costruire strumenti di prevenzione e accompagnamento che siano realmente efficaci.

È proprio questo passaggio – dalla dimensione emotiva e personale a quella operativa – che ha segnato il cuore del dibattito: la necessità di costruire alleanze di prossimità, coinvolgendo famiglie, scuole, sanità territoriale e comunità locali, affinché la rete di sostegno sia attiva prima, durante e dopo l’emergenza. Serve un lavoro paziente e capillare per diffondere competenze, promuovere una comunicazione responsabile – che informi e orienti, senza amplificare il rischio o lo stigma – e generare fiducia nelle istituzioni e nei presìdi del territorio.

Una riflessione specifica ha riguardato il piano digitale, oggi terreno cruciale di esposizione e vulnerabilità, soprattutto per le fasce più giovani. È stato evidenziato come l’idea di “cancellare” contenuti dannosi o traumatici sia spesso un’illusione tecnica e culturale. Tra blocchi temporanei, oscuramenti inefficaci e condivisioni incontrollate, ciò che manca è una vera alfabetizzazione digitale, soprattutto affettiva ed etica, insieme a regole chiare e applicabili e una responsabilità collettiva nella gestione e nella circolazione dei contenuti online.

Il messaggio che resta, e che può fare da guida per il proseguimento dei lavori, è tanto semplice quanto impegnativo: la prevenzione non è un evento straordinario, ma un lavoro quotidiano. Un impegno fatto di parole giuste, tempi giusti e reti solide, che non si attivano solo nell’urgenza, ma che vivono e agiscono nel tempo lungo dell’educazione, della relazione, della cura.



Mafia e lupara bianca: raccontare per non dimenticare

Il terzo panel, moderato dal giornalista RAI Paolo Di Giannantonio, ha offerto una riflessione lucida e coraggiosa sulla criminalità organizzata in Puglia.

Il magistrato della DIA Milto De Nozza ha descritto l’evoluzione della mafia locale, sempre più silenziosa ma non meno pericolosa, con la lupara bianca come simbolo di una violenza nascosta e definitiva.

Il giornalista Mino Marinazzo ha raccontato un cold case risolto dopo 23 anni a Brindisi, dimostrando l’importanza del giornalismo locale come custode della memoria delle vittime dimenticate.

Filippo Santigliano (La Gazzetta del Mezzogiorno) e Valentina Murrieri (Lecceprima) hanno sottolineato l’importanza di raccontare le mafie senza filtri, per mantenere viva la coscienza collettiva e contrastare il fenomeno.

Di Giannantonio ha concluso con un monito sulle mafie silenziose di oggi, meno spettacolari ma più radicate e influenti.

Il giornalismo come impegno civile e memoria collettiva

Il Festival Giornalisti del Mediterraneo ha dimostrato come il racconto di storie difficili non sia solo cronaca, ma un dovere morale e civile. Dai temi della violenza di genere al dolore del suicidio giovanile, fino alle ombre della mafia, il giornalismo può dare voce agli invisibili e contribuire alla costruzione di una società più giusta e consapevole.

Ciò che rimane nella psiche della platea, al termine di questo panel, è una consapevolezza difficile da ignorare: la violenza criminale non è scomparsa, ha solo cambiato forma. È meno visibile, ma più pervasiva. Non grida, non spara, ma penetra nei meccanismi economici, condiziona la concorrenza, devia capitali, inquina il tessuto produttivo.

Il panel ha mostrato con chiarezza come la criminalità organizzata non agisca più (o non solo) attraverso l’intimidazione diretta, ma attraverso reti finanziarie sofisticate, canali di riciclaggio, complicità silenziose, sfruttando i varchi del sistema legale e approfittando delle fragilità del mercato.

Dalle rotte del narcotraffico internazionale fino agli hub logistici locali, l’effetto finale si misura sul territorio: imprese sane che chiudono, lavoro che si impoverisce, interi settori che si piegano a logiche opache. Il danno è economico, ma anche culturale e sociale: si normalizza l’irregolarità, si legittima il sospetto, si indebolisce la fiducia nelle regole.

Il punto non è il clamore mediatico, ma la sistematicità dell’infiltrazione. La vera minaccia oggi non è l’eccezione, ma l’integrazione silenziosa nelle economie locali. Ed è per questo che servono strumenti adeguati: investigazioni articolate, tracciabilità reale, protezione concreta delle fonti e dei testimoni, affinché chi denuncia non venga lasciato solo.

La sintesi finale è chiara e non negoziabile: la legalità non è solo un valore astratto, ma una condizione concreta di sviluppo. Dove le regole sono chiare e valgono per tutti, le imprese crescono, i territori si rafforzano, le comunità si fidano.

Legalità e sviluppo non sono due strade parallele. Sono la stessa strada.




Indietro
Indietro

LE PUGLIE, NON LA PUGLIA

Avanti
Avanti

Discorsi Mediterranei porta diritti, storie e musica a Patù