Sant’Oronzo, 150 anni dopo

di Antonio Bruno

C’è un momento dell’anno in cui Lecce, la splendida città barocca conosciuta come la “spa all’aperto” per chi ama passeggiare tra monumenti e piazze ombreggiate, cambia volto e torna a essere una piazza di paese. Quel momento magico e sospeso si chiama Sant’Oronzo, la festa del Patrono, che da più di centocinquant’anni rappresenta molto più di una semplice ricorrenza religiosa: è un rito collettivo, un’esplosione di colori, suoni e gesti antichi che da sempre segnano l’identità di questa città.

Un cronista del Corriere Meridionale, nell’estate del 1911, raccontava come la festa durasse tre giorni intensi e cominciasse con una “strage” molto particolare, quella dei gallucci. Questi piccoli uccellini, razzolanti e ignari nei cortili delle case, venivano catturati per finire nel tegame, diventando così il tributo gastronomico dedicato al Patrono. Oggi i gallucci si salvano, non più vittime di questa tradizione culinaria, ma protagonisti di post su Instagram, con l’immancabile hashtag #foodporn, immortalati davanti a piatti di parmigiana o altre prelibatezze locali.

Se si pensa a com’era la festa centocinquant’anni fa, si può quasi respirare un’atmosfera completamente diversa: mortaretti che esplodevano in cielo, aerostati colorati che solcavano l’aria e contadini che scendevano dalle campagne a Lecce su carri e birocci, con le figlie vestite di abiti sgargianti, arricchite da collane di similoro, pronte a farsi ammirare dalla gente della città. Oggi invece, arriviamo in SUV, parcheggiamo dove capita, e indossiamo sneakers bianche quasi identiche, perché l’omologazione è diventata la nuova forma di folclore urbano.

Era anche il momento per le ragazze di mostrare la vestina nuova cucita a mano, un segno di cura e orgoglio famigliare. Ora, basta un vestito low-cost, ma la “sfilata” intorno alla piazza è rimasta. Tra luminarie scintillanti e smartphone accesi, la festa si trasforma in un evento social, dove chi non posta sui propri profili le immagini del momento sembra quasi non aver partecipato. Questa nuova ritualità digitale è diventata parte integrante del modo di vivere Sant’Oronzo.

Anche gli innamorati sono cambiati: un tempo si scambiavano sguardi timidi e strette di mano furtive al buio, mentre oggi si mandano messaggi su WhatsApp, si danno appuntamento “sotto la luminarie più instagrammabile” e si scambiano baci in diretta su TikTok, con il pubblico di amici virtuali che li segue e commenta in tempo reale.

Per i bambini di una volta, la felicità era un teatrino di legno e un sorbetto; oggi i più piccoli guardano i fuochi artificiali in streaming dal tablet mentre giocano al videogioco dei fuochi d’artificio, un altro simbolo del tempo che cambia e delle nuove abitudini.

Eppure, nonostante tutte queste trasformazioni, qualcosa di autentico e profondo resiste. Per tre giorni, Lecce si sveglia da una sorta di torpore e la monotonia quotidiana si rompe. Sotto le luci delle luminarie e il fragore festoso dei mortaretti, ci si ricorda che si è parte di una comunità, di un luogo che condivide storie, radici e passioni. La festa di Sant’Oronzo non è solo un evento folcloristico, ma un rito che ci fa sentire vivi e uniti, con il naso all’insù, a guardare il cielo illuminato.

Oggi, mentre un tempo si piangeva per il sacrificio del galletto, rischiamo quasi di commuoverci per la batteria del cellulare che si scarica proprio nel momento clou dei fuochi d’artificio. Ma, Patrono permettendo, continuiamo a esserci. Continuiamo a celebrare, a raccontare, a vivere Sant’Oronzo, portando avanti un patrimonio di emozioni e tradizioni che, pur mutate, restano il cuore pulsante di Lecce.

In fondo, è questa capacità di adattarsi e rinnovarsi che rende la festa di Sant’Oronzo così speciale: un ponte tra passato e presente, tra sacro e profano, tra memoria e futuro. Un momento in cui la città, per qualche giorno, si trasforma in un grande abbraccio collettivo, ricordandoci che, nonostante tutto, la comunità resiste e si celebra, tra luminarie, fuochi d’artificio e smartphone accesi.

 

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