Santi Nicolò e Cataldo, otto secoli nel cuore leccese
di Antonio Bruno
In un tempo in cui il futuro corre e si mangia il passato a morsi, c’è un posto – a Lecce – che resiste. Resiste davvero. Come quei nonni che non parlano tanto, ma ci sono sempre. È il complesso dei Santi Nicolò e Cataldo.
Non è solo una chiesa. No. È una macchina del tempo. Da più di ottocento anni è lì. Ferma. Presente. Ci parla, ci guarda, ci sfida.
Una pietra che è Puglia, è Europa, è Mediterraneo.
A volerla, nel 1180, fu Tancredi, conte di Lecce e re di Sicilia. Di lui, ce lo ricordano due epigrafi sui portali. Roba seria. Incise su quella pietra chiara, dorata. Quella che fa Lecce Lecce.
Ma qui il barocco non c’è ancora. C’è il romanico. Lo vedi. Tre navate, tre absidi, un tamburo ottagonale che svetta. Orgoglioso, elegante.
Un impianto basilicale, crociato. Perché Tancredi – figlio illegittimo di Ruggero III – era legato ai Normanni.
E forse per questo dedica la chiesa a San Nicola di Mira. Un vescovo orientale, amato sia da chi stava a est che da chi stava a ovest.
Ma c’è di più.
Sotto – attenzione – c’era una necropoli messapica. Sì, avete capito bene: lì sotto, un luogo sacro già da secoli. Millenni, forse.
E la chiesa sorge fuori dalle mura urbane. Come a dire che Dio lo trovi anche fuori dalla città, che l’anima ha bisogno di camminare, di uscire.
Poi arriva il Rinascimento.
E con lui gli Olivetani. Le famiglie nobili si fanno fare altari, si scolpiscono acquasantiere direttamente sulle colonne. Gli artisti dipingono volte, affreschi, un nuovo coro.
Lecce si guarda allo specchio. E si piace.
Nel 1716 succede qualcosa.
Entra in scena il barocco. Giuseppe Cino – o forse un giovane Mauro Manieri – ridisegna tutto.
Stucchi, putti, volute, luce ovunque. È la Lecce che conosciamo. Luminosa, teatrale, generosa.
Un dettaglio: all’ingresso c’è una statua di San Nicola. È grande, importante. La fa Gabriele Riccardi. La mettono lì, a guardare la strada. Come un custode. Come a dire: "Benvenuti a Lecce".
Ma attenzione: non è solo passato. No.
Questo posto vive ancora.
Respira negli occhi di chi lo visita, di chi ascolta il silenzio, di chi sente le storie.
Qui si fa cultura. Vera. Non solo conservare. Ma capire, raccontare, restituire.
Il complesso di Santi Nicolò e Cataldo è un dialogo. Tra epoche. Tra generazioni.
E in un’Italia che ogni tanto si dimentica dei suoi tesori più silenziosi, è bello sapere che qualcuno – almeno qui – si ferma. Osserva. Racconta.
E, magari, si commuove un po’.