"Quei segni nella grotta che parlano ancora"

Mi è capitato, nei giorni scorsi, di leggere qualcosa che mi ha fatto riflettere più del solito. Non si trattava di politica, né di spettacolo – due mondi che pure conosco bene – ma di un luogo nascosto, misterioso, affascinante: la Grotta dei Cervi di Porto Badisco, in Salento. Un santuario preistorico scoperto quasi per caso nel 1970, ma che ancora oggi ci parla, con voce antica, attraverso le sue pitture rupestri.

Ora, lo so, detta così sembra roba da studiosi, archeologi, scienziati. E infatti lo è. Ma se ci si avvicina con cuore semplice, ci si accorge che quelle figure tracciate sulle pareti, quei cervi, quelle spirali, quelle figure umane che si tengono per mano... parlano anche a noi. Raccontano di uomini e donne vissuti seimila anni fa, che già cercavano – come noi – di capire chi erano, dove andavano, cosa ci fosse dopo la morte o dietro il buio di una caverna.

C’è chi ha detto che si tratta di arte sciamanica. Che quegli antichi, in preda a visioni – indotte magari dal silenzio, o dalla paura, o da qualche erba strana – vedevano forme dentro di sé e le tracciavano fuori. C’è chi invece parla di riti di iniziazione, di giovani che diventavano adulti lasciando la loro impronta sulle pareti, come un “mi ricordo di esserci stato”. E c’è persino chi vi ha letto simboli della Dea Madre, di una sacralità al femminile, cosmica, profonda.

La verità? Probabilmente tutte queste cose insieme. Perché noi uomini, da sempre, abbiamo bisogno di raccontare. Di lasciare un segno. Di dire: "Sono passato di qui", anche se nessuno ci leggerà mai.

Pensavo a tutto questo e mi dicevo: oggi, in un mondo che corre, dove si scrive tutto su uno schermo che si spegne, non sarebbe male entrare – almeno per un attimo – in una grotta buia, silenziosa, come quella di Porto Badisco. Stare lì, in silenzio, ad ascoltare quei muri. Forse ci direbbero qualcosa anche su di noi.

E allora sì, magari la preistoria ci fa un po’ paura, perché ci ricorda che siamo solo una tappa. Ma ci consola anche. Perché ci fa sentire parte di una lunga storia, iniziata migliaia di anni fa con un dito tremante che disegna una spirale sul calcare. Un gesto semplice. Ma eterno.

Antonio Bruno
(immaginando il silenzio di una grotta, tra le voci di chi non c’è più)

 

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