Nel cuore di Lecce, tra parcheggi liberi e culture “eretiche”

Di Antonio Bruno

Il bello del Museo Sigismondo Castromediano di Lecce è anche nelle piccole cose: parcheggio in via San Bernardino Realino, subito dopo l’ex distributore Chironi, e raggiungo l’emiciclo in un batter d’occhio. Un dettaglio solo apparentemente marginale – per inciso, il parcheggio è gratuito – che diventa già un modo di entrare nello spirito del luogo: accessibile, concreto, quasi domestico.

Poi, alzando lo sguardo, ecco l’austera sede che fu dei Gesuiti quando, da via dei Tribunali, si trasferirono fuori città. Accanto, l’emiciclo realizzato dalla Provincia di Lecce: non un semplice spazio architettonico, ma un luogo che oggi vive di pensieri e incontri, coordinato da Luigi De Luca – per me semplicemente Gigi – direttore del Polo Bibliomuseale di Lecce, del Museo Castromediano, della Biblioteca Nicola Bernardini, della Biblioteca Girolamo Comi e dell’Istituto di Culture Mediterranee. Lo conobbi anni fa grazie al professor Giulio Cesare Giordano, dirigente di Rai Med, e ritrovarlo oggi in questo ruolo è come vedere un’idea coltivata dare finalmente frutto.

Quella mattina, all’emiciclo, si parlava di Goffredo Fofi. Ne discutevano Mirko Grasso, curatore del volume Arcipelago Sud, insieme a Rocco Nichi e Luca Bandirali di Unisalento. Io, lo confesso, non avevo mai sentito nominare Fofi. E forse proprio per questo tutto ciò che ho ascoltato è stato puro stupore. Dalle parole dei relatori prendeva forma il ritratto di una “bella persona”, ma soprattutto di un intellettuale fuori norma: un maestro elementare eretico, un intellettuale eretico.

La parola “eretico”, qui, non ha nulla di scandaloso e molto di necessario. Mi ha riportato al mio maestro elementare, anche lui eretico nel modo di insegnare e di guardare il mondo, che in tre anni di scuola seppe trasformarmi profondamente. Una trasformazione che non si è più fermata. Forse è per questo che la figura di Fofi mi ha toccato così da vicino: perché in lui ho riconosciuto quel raro tipo di educatore che non si limita a istruire, ma scardina abitudini mentali, risveglia domande, apre finestre.

Tornato a casa, ho sentito il bisogno di scavare di più, di andare oltre quanto ascoltato all’emiciclo. Così è emerso il Fofi che oggi sento di raccontare, grazie all’amico Gigi De Luca e a quella mattina leccese carica di pensieri.

Secondo Fofi, il mondo della cultura somiglia sempre più a una grande città costruita in fretta. Le strade principali sono illuminate a giorno e percorse da folle instancabili; i vicoli laterali, invece, restano in penombra, abitati da pochi passanti silenziosi che sembrano custodire segreti dimenticati. Nelle vie centrali si vende di tutto: storie preconfezionate, sogni pronti all’uso, idee impacchettate come souvenir. Nei vicoli, al contrario, si lavora lentamente, con strumenti fragili e spesso invisibili. Chi vi abita non è necessariamente povero, ma irrimediabilmente libero.

A chi nasce oggi, questa città viene mostrata dall’alto come una promessa: infinite possibilità creative al posto di mestieri stabili, l’illusione che basti “esprimersi” per esistere, la convinzione che tutto possa diventare arte. Così tutti parlano insieme, tutti costruiscono, tutti espongono. La città cresce in altezza, ma perde profondità. Diventa sempre più difficile distinguere ciò che regge davvero i muri da ciò che è solo decorazione.

Gli esperti continuano a disegnare mappe di quartieri che cambiano forma mentre li osservano. I cronisti annunciano ogni nuova torre come se fosse eterna, ma pochi notano le fondamenta che cedono o le case minime dove nasce qualcosa di veramente nuovo. Per capire questa città bisognerebbe camminarla tutta, non sorvolarla: mescolare cinema e narrativa, musica e fumetti, voci ufficiali e frasi scritte per caso sui muri.

Chi crea davvero non risponde alle mode, ma a domande antiche che ritornano travestite da modernità: chi siamo, dove andiamo, che cosa stiamo distruggendo senza accorgercene. La cultura, dice Fofi, non unisce automaticamente. Al contrario: divide, contesta, mette in crisi. Non è una lingua universale, ma una torre di Babele necessaria, in cui le voci si disturbano a vicenda e proprio per questo diventano più vere.

Il talento non si pianifica come un investimento finanziario. Puoi frequentare le scuole migliori, avere accesso ai libri più prestigiosi, ma se l’ingranaggio invisibile non si mette in moto, ne usciranno soltanto repliche e ombre. Altrove, invece – magari in luoghi che sulle mappe sembrano periferici – nascono opere impreviste, come giardini che spuntano su tetti abbandonati.

Ogni paese contiene insieme capolavori e macerie, e l’Italia non fa eccezione. Ma in mezzo a una folla di professionisti della parola che spesso la usano per coprire più che per svelare, resistono ancora alcuni scrittori, critici e insegnanti che trattano la lingua come una materia viva, pericolosa, necessaria. Non offrono soluzioni facili. Continuano però a fare l’unica cosa che conta: esplorare la città, indicare crepe, aprire finestre.

E talvolta, se siamo fortunati, insegnarci a riconoscere una strada vera in mezzo a troppe luci finte.

Oggi, al Museo Castromediano, io ho avuto la sensazione netta di aver intravisto una di quelle strade. Non so ancora dove mi porterà. Ma so che, quando accade, non è mai per caso.

 

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