“La banalità del dolore: come il passato dei nostri genitori plasma il nostro presente”

Di Antonio Bruno

Hannah Arendt

“Victrix Causa deis placuit sed victa Catoni” La causa dei vincitori piacque agli dei, quella dei vinti a Catone. Pare che questa fosse una delle citazioni più amate di Hannah Arendt e che l’abbia lasciata nella macchina da scrivere il 4 dicembre 1975, la sera in cui morì.

Toti Calo (in realtà Calò, ma lui preferisce Calo) è il mio nuovo amico, e in poco tempo è diventato carissimo. Alla mia monotona testimonianza, che tentava di riappropriarsi dell’essere madre e padre di se stessi come unica via verso la felicità, opponeva la banalità del male, citando Hannah Arendt. Solo che, questa volta, la banalità del male non sembrava lontana dai grandi eventi storici: la riconoscevo nelle pieghe più intime della vita quotidiana.

Il paradigma della mia nascita è fragile: fiducia di essere nutriti, protetti, amati. Quando questo amore manca — perché mamma e papà non lo hanno ricevuto dai loro genitori — si genera un dolore che non possiamo dire da bambini nemmeno a noi stessi. Non possiamo mettere in discussione chi ci protegge, perché rischieremmo di perderne la protezione, che per un bambino significa la morte sicura. Così impariamo a rimuovere, a ignorare il “non amore”, e lo trasformiamo in silenzio.

Ecco allora la lezione di Arendt sotto un’altra luce: l’ottusità di chi esegue ordini senza pensare, la tentazione di esercitare il dominio sugli altri, non nasce da una natura malvagia della donna e dell’uomo, oppure dal nulla. Nasce da noi, dalle ferite inflitteci dai nostri genitori, dalla rabbia e dal dolore che abbiamo dovuto occultare. Impariamo da bambini che per sopravvivere dobbiamo obbedire, accettare l’ingiustizia e nascondere la nostra sofferenza. E quella sofferenza, una volta diventati adulti, la proiettiamo sugli altri, perpetuando la banalità del male nella nostra vita privata, nei piccoli atti quotidiani, in ogni gesto di dominio non pensato.

Pensare, avvertiva Arendt, è un atto di responsabilità. E forse il vero pensiero comincia proprio lì, nel riconoscere i modelli che abbiamo ereditato, nel chiamare le cose col loro nome e nell’imparare a non riprodurli. Ogni gesto di cura, ogni parola di verità, ogni scelta di rispetto verso gli altri diventa allora un piccolo esercizio di libertà. L’amicizia, il dialogo, il pensiero critico: sono le armi con cui possiamo interrompere la catena del male banale, quella che ha origine nel nostro dolore infantile e che altrimenti rischia di diventare contagiosa.

Così, parlando con Toti Calo, sento che anche le ferite più antiche possono diventare apertura. E che il bene non è un’idea lontana: è tutto ciò che facciamo ogni giorno per riconoscere l’altro, ascoltarlo, non ferirlo, non ripetere ciò che ci è stato inflitto.

 

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