Dai reali d’Europa a Depressa: storia dei Winspeare

di Antonio Bruno

Nel cuore del Salento, tra le pietre calde e la luce morbida di un Sud che non si piega alla modernità senza combattere, c’è un piccolo borgo che porta un nome ingannevole: Depressa. Chi lo conosce sa che non è un luogo malinconico, tutt’altro. Incastonato nel paesaggio di Tricase, è un microcosmo di memorie aristocratiche, di storie familiari che s’intrecciano con la grande storia d’Europa.

Qui ha messo radici la famiglia Winspeare, baroni per discendenza e contadini per scelta, testimoni di un Meridione in cui nobiltà e civiltà contadina si sono spesso incontrate, talvolta scontrate, ma sempre riconosciute a vicenda.

La storia di questa famiglia parte da lontano. Il capostipite, Antonio Winspeare, giunse nel Salento nel 1868, con una carica prefettizia del nuovo Regno d’Italia. Il Sud, ancora sospeso tra l’eredità borbonica e le promesse del nuovo Stato unitario, era terra di conquiste e speranze. Antonio, come accade nei romanzi e nelle cronache di altri tempi, si innamorò della figlia del principe Gallone di Tricase. Da questa unione nacque una dinastia locale, che avrebbe tenuto vivo il legame con la terra, anche quando sembrava destinata a diventare solo passato.

Il feudo di Depressa, insieme a quelli di Supersano e Salve, divenne così la culla di una piccola aristocrazia terriera che seppe coniugare memoria e futuro. La stessa tenuta – oggi in parte restaurata, in parte lasciata al fascino del tempo – testimonia una concezione della nobiltà lontana dalla vanità, più vicina all’idea del servizio e della custodia.

La loro dimora principale, un castello che affonda le sue fondamenta nel XIV secolo, fu distrutto durante le incursioni ottomane dell'assedio di Otranto (1480-81), episodio che sconvolse tutto il Salento. Ma come spesso accade nel Sud, dalle rovine rinacque qualcosa di più solido: ricostruito nel 1500 dal feudatario Giovanni Saraceno, passò poi alla famiglia Gallone nel 1604 e infine ai Winspeare nell’Ottocento. Il castello, con le sue mura cinquecentesche e gli abbellimenti ottocenteschi firmati dall’architetto Filippo Bacile – lo stesso della ferrovia del Sud Est – è oggi un raro esempio di architettura nobiliare sopravvissuta senza diventare museo, ma restando casa.

Non mancano le presenze illustri: tra le mura di Depressa passò anche Benedetto Croce, legato a un Winspeare riformatore e industrializzatore, che avrebbe potuto diventare senatore ma fu troppo intransigente per i compromessi politici dell’Italia postunitaria. E ancora, nei racconti di famiglia, compare la principessa Margaret d’Inghilterra – accolta, nel 1966, da una governante salentina che parlava a stento l’inglese – e addirittura l’imperatrice Eugenia, moglie di Napoleone III, che donò il proprio bicchiere d’argento a un messaggero Winspeare di ritorno dalla Crimea.

La genealogia si allunga fino alla nobile discendenza austriaca: Giulia Guicciardi, musa di Beethoven e destinataria della "Sonata al chiaro di luna", era nipote di un generale modenese nell’Impero d’Austria, anch’egli antenato dei Winspeare. E proprio attraverso Livorno, porto franco e rifugio di dissidenti religiosi, giunsero i primi Winspeare in Italia: una famiglia cattolica emigrata dall’Inghilterra protestante alla fine del Seicento, in cerca di libertà e di un futuro.

Ma se i nomi e i titoli raccontano il passato, è il presente che sorprende. Oggi la famiglia Winspeare ha invertito la rotta dell’emigrazione: i figli sono tornati a Depressa, non per nostalgia, ma per scelta. Qui vogliono creare lavoro, coltivare cultura, abitare la memoria. L’idea è quella di trasformare il castello in un contenitore culturale, un luogo vivo, non imbalsamato, dove si possano fare concerti, mostre, incontri.

Depressa non è solo una geografia. È una visione del mondo. “Dove si trova la piazza più bella del mondo?”, chiedeva la nonna Winspeare ai nipoti. “A Vienna?”, azzardavano. “No, a Depressa – rispondeva lei – perché è nostra”. È una battuta, certo. Ma anche una dichiarazione d’amore. E forse è proprio questo che ci insegna questa storia: l’identità non è ciò che ereditiamo, ma ciò che scegliamo di amare.

Bibliografia

  • Croce, Benedetto. Storia del Regno di Napoli. Laterza, 1925.

  • Galasso, Giuseppe. Il Mezzogiorno nella storia d’Italia. Laterza, 2011.

  • Guicciardi, Giulia. Lettere a Beethoven. Archivio di Stato di Vienna.

  • Romeo, Rosario. Cavour e il suo tempo. Laterza, 1971.

  • Spagnoletti, Angelantonio. Il Sud nella storia d’Italia. Donzelli, 1997.

  • Winspeare, Edoardo. Il futuro è passato di qui. Documentario, Apulia Film Commission, 2015.

  • Zangheri, Renzo. Storia del socialismo italiano. Editori Riuniti, 1975.


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