L'acquasale, una memoria d'amore e povertà
C’è una verità semplice, commovente, che si nasconde nei piatti della cucina povera: non si cucina solo per nutrirsi, ma per ricordare. L’acquasale — questo piatto umile, bagnato d’acqua, pane e dignità — è un perfetto esempio di quanto la memoria sia capace di sopravvivere al tempo, alle mode e persino alla fame.
Nel 1985, Cosmai, nel suo Leggende e tradizioni biscegliesi, ci racconta l’acquasale con la dolcezza di chi osserva un oggetto caro d’infanzia. Una ricetta, certo, ma anche un racconto popolare che si trasmette di bocca in bocca, di cucina in cucina.
Ma è nel 1973 che Sada, nel suo Cucina pugliese di poveri, ci presenta questo piatto come qualcosa di vivo, dalle molte facce, con nomi diversi, varianti leggere come un soffio, a seconda del paese, della costa, della famiglia. Lì scopriamo che l’acquasale non è mai una sola, è tante, e tutte vere.
Poi, quasi vent’anni dopo, lo stesso Sada torna sull’argomento nel suo Cucina pugliese alla poverella del 1991. E lì accade qualcosa di meraviglioso: non ci racconta solo la ricetta, ma il contesto. Le condizioni di chi la cucinava, la povertà che diventava ingegno, la fame che si faceva sapore. Ricorda che tra quei “quattro piatti comunissimi” delle famiglie del popolo minuto, l’acquasale era presenza quotidiana. Ma non mancano le varianti più ricche, come l’“acquasale cu ll’ove”, cucinata dai pescatori del Gargano.
Ecco, mi piace pensare che questi piatti, oggi riscoperti da gourmet e rivisitati da chef, nascano in realtà da mani ruvide e generose. E che ogni morso sia un piccolo gesto d’amore verso chi c’era prima di noi.
L’acquasale non è solo pane bagnato. È storia, fame, casa. È la nonna che mescola acqua e ricordi. È il suono di un cucchiaio in una ciotola sbeccata. È la poesia quotidiana di un Sud che non ha mai smesso di raccontarsi, anche con un filo d’olio e una cipolla.
Antonio