Un Salento di fiori e devozione
di Antonio Bruno
Statua di San Sebatiano a Racale (Lecce)
C’è un’Italia che ogni estate si accende non con i riflettori dello spettacolo, ma con la luce antica delle sue tradizioni. È il Salento delle feste patronali: un mosaico di gesti tramandati, profumi familiari, devozione collettiva. Una terra che, per pochi giorni, si fa teatro di sé stessa, tra petali sparsi, canti popolari e passi lenti dietro a una statua.
Tutto ha inizio con un cesto di fiori stretto tra le mani. Non è solo un’offerta, ma un linguaggio: ogni fiore ha un significato, ogni composizione racconta qualcosa. I fiori non sono semplici ornamenti, sono parte viva del rito. Abbelliscono altarini, incorniciano sagrati, diventano ex voto. Le vie del paese si trasformano in tappeti fioriti, disegnati con cuore, croci, iniziali dei santi. E intorno, la comunità si muove come un corpo solo, tra incenso, campane e applausi.
Molti fiori sono umili, raccolti nei campi: lavanda, papaveri, camomilla, malva. A coglierli sono mani esperte – spesso di donne e bambini – che conoscono il valore del tempo e del silenzio. Non è solo folclore: è un patto con la terra, un modo per dire grazie, per chiedere protezione, per non dimenticare.
Eppure, oggi, quel patto rischia di spezzarsi.
Il pericolo non è solo nel tempo che passa, ma nel tempo che cambia. Sempre più spesso le tradizioni popolari vengono viste come folclore da cartolina, buone per un post sui social o per attirare turismo. Ma le feste patronali, nel Salento come altrove, non sono uno spettacolo: sono un rito collettivo, un’espressione di identità profonda.
La “parazione”con i suoi “paraturi”, quelle strutture in legno che sorreggono ghirlande e luminarie, si montano ancora, ma sempre più in fretta. I canti rischiano di perdere le voci che li tramandano, e i fiori selvatici cedono il passo alle composizioni artificiali. I bambini, un tempo protagonisti, oggi spesso guardano da lontano, distratti da altro. E così, una parte di memoria si affievolisce, un filo si allenta.
Ecco perché dobbiamo difendere queste tradizioni. Non per nostalgia, ma per consapevolezza. Perché in quei petali sparsi, in quelle mani che si tendono con rispetto e fede, c’è la storia di un popolo che ha saputo trasformare la semplicità in bellezza, e la fede in arte. C’è un Salento che fiorisce ogni estate, ma che ha bisogno di essere curato anche durante l’inverno.
Il rischio di perdere queste radici non riguarda solo il Salento, ma l’Italia intera. Perché se smettiamo di riconoscerci nei nostri riti, nei nostri simboli condivisi, allora perdiamo un pezzo della nostra anima.
Un fiore non cambia il mondo, ma può ricordarci chi siamo. E in un tempo che corre veloce, il passo lento di una processione, il profumo della zagara, un cesto di fiori portato con devozione, sono una forma di resistenza. Silenziosa, ma potente.