“Quel meraviglioso pancotto, memoria di popolo”

C’è qualcosa di struggente, di profondamente umano, nel pensare che una ciotola di pane raffermo ammorbidito nell’acqua e condito con olio e verdure di campo possa racchiudere secoli di storia, di fame, di dignità. Il pancotto, signori miei, non è solo un piatto povero: è un monumento invisibile all’arte di arrangiarsi, alla sapienza contadina e al rispetto per ciò che si ha.

Ci sono piatti che non nascono da un’idea dello chef, ma da un’urgenza della vita. In Salento – e lo sappiamo bene – il pancotto è una liturgia antica, un gesto ripetuto da mani rugose che prima ancora di cucinare, pregano. Non si spreca nulla, si diceva una volta. E quel pane duro, rinato tra gli aromi selvatici della rucola o del cardo macchiato – lu carduncieddu salvaggiu, come lo chiamavano i nostri nonni – è la prova più concreta che la cucina, quando è vera, sa commuovere.

Già nell’Ottocento, il professor Achille Bruni – una specie di cronista del mondo vegetale – annotava con attenzione commovente che i villani delle masserie bollivano la Diplotaxis tenuifolia, la ruca selvatica, con pane scuro, quello perruzzo ricco di glutine. Ne parlava senza ironia, anzi, con rispetto. Scriveva che la mangiavano “avidamente”, come se ogni cucchiaiata fosse una benedizione. Non era solo fame. Era gusto. Era radicamento. Era identità.

Oggi, mentre rincorriamo la cucina molecolare, il piatto instagrammabile, il menù degustazione a venti portate, forse ci farebbe bene tornare a sederci intorno a una tavola dove il pancotto viene servito fumante, senza pretese, ma con tutta la forza di una cultura millenaria.

La scienza, la botanica, la storia agricola del Sud ci raccontano che ogni ingrediente di questo piatto è frutto di conoscenza. E che non esiste cucina povera quando c’è intelligenza nel prepararla e amore nel tramandarla.

Forse è questo il nostro compito, oggi: non farci rubare la memoria. Perché, vedete, non c’è progresso se dimentichiamo da dove veniamo. E il pancotto è proprio questo: il profumo umile del passato che ancora ci insegna il futuro.

Antonio Bruno

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Matino, storia salentina tra pietra, memoria e devozione antica