“Palazzo Bernardini, una casa che racconta l’Italia che cambia”

Ogni tanto, nel nostro Paese, capita d’imbattersi in luoghi che non sono solo belle dimore, ma veri e propri scrigni di memoria. Non musei, no. Case vissute, amate, custodite. Una di queste è Palazzo Bernardini a Lecce, nel cuore del Salento: un angolo d’Italia che sembra aver fatto sua l’arte di raccogliere e conservare il tempo, non come un peso, ma come un racconto.

Entrare in Palazzo Bernardini è come sfogliare un romanzo corale sull’Italia meridionale: tre edifici rinascimentali unificati nell’Ottocento, soffitti affrescati, libri con dedica, carte ingiallite e oggetti che vengono da Costantinopoli. Una geografia domestica dove convivono il Rinascimento e il Neoclassico, il cattolicesimo e l’ortodossia, l’aristocrazia e il patriottismo risorgimentale. Ma soprattutto, una casa dove le pareti parlano.

Parlano di ingegneri illuministi che costruivano nel Regno delle Due Sicilie mentre insegnavano matematica a Napoli. Di biblioteche che mischiano Newton con Dickens, l’arte sacra con l’anticlericalismo. Parlano di un Sud che non è solo cartolina o lamento, ma laboratorio, officina, luogo di passaggi. Passaggi di idee, di merci, di speranze.

E poi, lasciatemelo dire, questo palazzo ci ricorda quanto è stato difficile per il Mezzogiorno trovare la sua voce nell’Italia unita. In quelle stanze ci sono i segni del trasformismo, quello che Croce descriveva come adattamento per sopravvivere, e che Gramsci analizzava nei suoi Quaderni come il grande compromesso delle classi dirigenti. Gente che votava leggi nuove con il cuore diviso tra fedeltà e opportunismo.

Ma la cosa che mi colpisce di più è la presenza silenziosa di un mondo orientale, bizantino, greco, armeno. Una finestra sull’Oriente che qui non è folklore, ma radice profonda. In quel palazzo vive ancora il ricordo di riti greco-cattolici celebrati fino all’Ottocento, della Grecia salentina che canta in griko, della convivenza religiosa che oggi chiamiamo ecumenismo, ma che un tempo era semplice sopravvivenza.

In un’Italia dove spesso ci dimentichiamo chi siamo, Palazzo Bernardini ci ricorda che la nostra identità è fatta di strati, di contraddizioni, di alleanze improbabili e memorie lontane. Non c’è bisogno di andare a Istanbul o a Vienna: basta salire le scale di quel palazzo, e si scopre un’Italia che ha imparato a tenere insieme tutto. A modo suo.

E allora sì, quelle stanze parlano. Raccontano un Sud che ha sofferto, certo, ma che ha anche saputo creare bellezza, pensiero, civiltà. Un Sud che andrebbe ascoltato di più. Perché, alla fine, una casa come Palazzo Bernardini non è solo un luogo del passato. È un insegnamento per il futuro.

Antonio Bruno

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