Oltre il racconto convenzionale
di Antonio Bruno
Oggi, a San Cesario, ascoltando le voci di una radio degli anni ’70, ho sentito una donna chiedere, con la voce stanca ma lucida:
«Ma a voi sembra giusto che mentre sto lavando i panni oppure sto facendo il sugo, arriva mio marito e vuole fare i suoi comodi?»
Quella domanda, semplice eppure feroce nella sua quotidianità, ci ricorda che la storia delle donne non è fatta solo di grandi eventi o leggi da celebrare, ma di gesti minuti, di attese e di sopportazioni invisibili. E oggi, spesso, il racconto resta invariato: donna vittima, uomo carnefice. Un copione consolidato, che pare non avere alternative.
Eppure, se allarghiamo lo sguardo, la prospettiva cambia. Humberto Maturana ci ha insegnato che la violenza si manifesta quando qualcuno cerca di imporre il proprio potere su chi non accetta la sottomissione. Riane Eisler ci ricorda che la violenza patriarcale non è eterna: è un’invenzione relativamente recente, comparsa tra 5.000 e 10.000 anni fa, con le prime società gerarchiche e bellicose. Prima, le comunità umane erano più eque, cooperative, rispettose di donne, bambini e natura.
Se vogliamo davvero comprendere le relazioni tra i sessi, non possiamo limitarci agli ultimi sessant’anni di comunicazione televisiva e radiofonica. Dobbiamo guardare indietro, a millenni di culture in cui il comando non era prerogativa di un solo genere e la violenza non era normalizzata.
Forse la chiave non sta solo nel raccontare la donna come vittima e l’uomo come carnefice, ma nel ricordare che la cultura produce le relazioni e che possiamo cambiarle. Ripensare alla nostra storia più antica non per idealizzarla, ma per capire che un mondo più equo e rispettoso non è un sogno impossibile: è già stato vissuto, e possiamo provare a farlo rivivere.
Perché la delicatezza della vita, così come la forza di quella donna che, tra il sugo e il bucato, chiedeva giustizia, non può essere ridotta a un cliché: merita di essere raccontata con tutta la sua complessità.