Nel cuore di pietra: cellette, grotte e silenzio sacro
di Antonio Bruno
Otranto, Grotte di San Giovanni
C’è un silenzio, nel Salento, che non è semplice assenza di rumore. No, è qualcosa di diverso. È un silenzio che sembra raccontarti tutto, anche quello che non sai. Lo senti nelle mani quando accarezzi la pietra fredda, lo vedi negli occhi delle croci graffiate sulle pareti, lasciate lì da chissà chi, chissà quando.
Parliamo di un luogo che va oltre la cartolina turistica. Siamo tra Otranto e Ugento, dove la terra si apre all’improvviso in ferite antiche: grotte, cellette, rifugi. Roba da monaci, da eremiti, da uomini che cercavano Dio nel buio. Non per forza con clamore, ma con il passo lento di chi ha fatto del silenzio una scelta.
A San Giovanni, alle porte di Otranto, c’è un complesso rupestre che pare uscito da un racconto dimenticato. Una grotta lunga diciannove metri, con cinque gradini grezzi, ti accompagna dentro. Non è solo una discesa fisica, è anche una discesa dentro di te. Lì, nella pietra, una cappella ti racconta preghiere mai urlate, ma sussurrate. Cinque nicchie da una parte, una dall’altra. Come se la pietra stessa avesse imparato a pregare.
C’è da dire, però, che molto è andato perso. I lavori moderni, come spesso accade, hanno fatto tabula rasa. Una volta lì c’erano frati, una chiesa, un convento — San Giovanni Battista, tenuto dai Francescani Osservanti. Poi vennero i Turchi nel 1480, e quel poco che restava fu riparato, fino a quando, nel 1809, gli ordini religiosi non furono soppressi. Ora restano tombe sparse, qualche muro sbrecciato.
Basta camminare un po’. Un corridoio stretto, lungo diciotto metri, ti conduce verso qualcosa che somiglia a un viaggio dell’anima. Da una parte e dall’altra, piccole cellette. Regolari, spartane. Un metro e ottantacinque per uno e venticinque. Basta questo per incontrare Dio? A quanto pare sì.
Avanzi ancora. Un ambiente rotondo ti accoglie: due nicchie si guardano in silenzio, una comunica con una cella, come se volesse passare un segreto. Poco più avanti, la grotta si apre in un arco. Al centro, un pilastro attraversato da tre celle. Roba da far venire i brividi: sembra uno stallo corale, dove i monaci pregavano insieme ma ognuno nel proprio angolo. Soli, ma insieme.
Sulle pareti ci sono croci, scritte, incisioni bizantine. Testimonianze. Non sono arte. Non volevano esserlo. Sono messaggi. Qualcuno li ha lasciati, sperando che un giorno, qualcuno li avrebbe letti.
Poi c’è la valle dell’Idro. Lì, un tempo, sorgeva la “Spezzeria”. È crollata. Ma lì dentro, dicono, c’erano cellette piccolissime. Trenta centimetri per venticinque. Già. Nemmeno lo spazio per sdraiarsi. Ma bastava per una lucerna, per un pensiero, per un frammento di fede.
Ugento Grotte località Crocefisso
A Ugento, zona “Crocefisso”, si trova un altro complesso rupestre. Più che grotte, sembrano alveari. Otto file di cellette, alcune forse per le lampade, altre per le preghiere. Anche lì un corridoio porta a una stanza un po’ più grande, e dentro… un ripostiglio. Chissà cosa ci tenevano. Un oggetto sacro? O semplicemente un tozzo di pane? Poco importa. In quei gesti minimi c’è tutto.
Guardando queste misure — trenta centimetri, un metro e venti, tre metri e cinquanta — capisci che non erano solo luoghi per vivere, ma per sparire. Per uscire dal mondo e forse tornare migliori.
Oggi, purtroppo, molte di queste grotte sono ridotte male. La pietra si sfalda, il tempo consuma. E noi, troppo spesso, ci voltiamo dall’altra parte. Ma chi ha vissuto lì dentro, chi ha scavato con le mani, chi ha pregato senza far rumore… c’è ancora. Il loro respiro si sente. Piano. Come un’eco nella pietra.
E allora sì, forse entrare in una di queste cellette è ancora oggi un gesto potente. Un gesto che ci ricorda che il sacro non ha bisogno di luci al neon. Basta una nicchia dimenticata. Basta una pietra. Basta il silenzio giusto.