Nel cuore del Salento si canta ancora: poesia, amore e memoria

di Antonio Bruno Dottore in Scienze Agrarie

Sono cresciuto con una certezza: l’Italia non canta solo a Sanremo, l’Italia canta per strada. E la sua colonna sonora – tra fruscii di lenzuola stese e rumore di corse al mercato – è la poesia popolare. Quella che non va in classifica ma rimane in testa (e nel cuore) molto più a lungo di un tormentone estivo.

Prendete la Puglia del XIII secolo, quando – stando alla cronaca di Matteo Spinello – «Lo Rè passò la notte sceva pe Varletta cantando strambotte e canzune». È il 1258: sul Gargano non ci sono ancora i trulli-Instagram e neppure la pizzica per turisti, ma già si intonano ottave e “canzuni” che salgono dalla Sicilia e si arrampicano fino in Toscana. Un’autostrada sonora ante-litteram, percorsa a piedi, a dorso di mulo, ma soprattutto a colpi di rime.

Il bello è che quelle strofe di otto versi, alternati o baciati, resistono ancora. Cambiano i telefoni, ma lo strambotto resta: lo senti in una serenata sotto il balcone o nella voce di due ragazze che, a San Nicandro Garganico, si dondolano su un’altalena chiamata ’ndrànnla infilandoci quell’«oré-e» che non significa nulla e perciò – come spesso succede in poesia – significa tutto.

E poi c’è il ritmo, oscillante tra malinconia orientale e tarantella scatenata, capace di assecondare sia il pianto di un amante tradito sia il trotto dei mulattieri che macinano chilometri senza mai perdere il fiato né la metrica. Testi d’amore, di dispetto, di gelosia, di addii: materia prima inesauribile, perché l’animo umano non ha ancora trovato un vaccino contro i sentimenti.

Ora, qualcuno potrebbe dire: «Antonio Bruno, ma che ci importa degli strambotti se abbiamo Spotify?». Rispondo con una domanda: perché ci emozioniamo quando un bambino canticchia una ninna-nanna? Perché quelle nenie in endecasillabi accoppiati – magari imparati dalla nonna analfabeta – valgono più di cento algoritmi di suggerimento musicale. Sono la prova che la poesia popolare non ha mai avuto bisogno di copyright: basta una culla che cigola e un cuore che batte.

Perfino la cronaca politica, in Puglia, passava per la rima: la morte di Ferdinando II, la caduta dei Borbone, il brigantaggio post-unitario. Testi effimeri, certo, ma nel momento giusto erano il nostro tweet: rapidi, taglienti, capaci di far girare la notizia di masseria in masseria. Poi svanivano, proprio come oggi svaniscono le notizie sui social, sommerse dal nuovo trending topic.

E quando pensiamo che tutto sia perduto, ecco spuntare un poeta vero, come Alessandro Nobilitti di Ischitella: analfabeta, eppure prodigioso nell’accendere d’improvviso brindisi e epigrammi che la gente ricorda a memoria. Non studiava, non sfogliava manuali di metrica: gli veniva naturale, come un fischio liberatorio. La poesia popolare fa così: salta fuori quando serve, non chiede permesso, non firma liberatorie SIAE.

E allora che succede oggi? Succede che la tradizione rischia di finire archiviata in una playlist museale. Ma c’è un antidoto: riprendere quelle melodie, quelle ottave, quelle filastrocche, e farle suonare di nuovo – magari tra un reel e l’altro. Non per nostalgia, ma per respirare un’aria antica che ci ricorda chi siamo: un popolo che, prima di inventare la televisione, aveva già inventato il palinsesto della vita quotidiana, fatto di pause di lavoro, serenate, feste patronali e ninna-nanne.

Ecco perché, quando sento parlare di “contenuti generati dagli utenti”, mi viene da sorridere: la poesia popolare ne è la forma più antica e democratica. L’unica differenza è che, un tempo, lo storage non era un server ma la memoria collettiva. Funzionava alla grande, finché qualcuno si prendeva la briga di cantare.

Perciò, vi lascio con un invito: la prossima volta che vi capita di passare in Puglia, non limitatevi a ordinare orecchiette. Fermatevi davanti a un’uscio, tirate fuori la voce – stortignaccola pure, non importa – e intonate un vecchio strambotto. Magari non sarete perfetti, ma porterete avanti una catena sonora che dura da ottocento anni. E fidatevi: il pubblico che vi ascolterà, fosse anche un solo anziano che vi fissa dal balcone, vi regalerà l’applauso più sincero del mondo – quello che fa rumore dentro.

Perché, in fondo, l’Italia è questa: un Paese che continua a cantare, anche quando sembra aver perso le parole. E la poesia popolare è lì, pronta a ricordargliele.

 

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