Cozze piccine allu rienu: tradizione, scienza e sapore salentino

di Antonio Bruno Dottore in Scienze Agrarie

Ora, fermiamoci un attimo. Perché in un mondo che corre veloce, parlare delle “cozze piccine allu rienu” – che poi non sono cozze, ma piccole chiocciole terrestri, per la precisione Euparipha pisana – è come tirare il freno e sedersi davanti a un piatto che sa di fatica, di sole, di campi, e soprattutto di casa.

Questa non è una pietanza. È un pezzo di storia. Un frammento di archeologia gastronomica salentina. Quelle chiocciole, che i locali chiamano affettuosamente cuzzeddhre, sono tra le più piccole del loro genere eppure, nella loro umiltà, raccontano un intero mondo. Quando il caldo del Sud brucia le stoppie e secca la terra, loro si sigillano – sì, letteralmente – su steli e rametti secchi, chiuse in un guscio protetto da un sottile epiframma, quasi fosse un vetro. Un gesto semplice, ma perfetto per sopravvivere alla siccità. La scienza ci dice che è una strategia detta estivazione, un meccanismo biologico con cui i gasteropodi terrestri riducono al minimo le funzioni vitali per superare l’estate torrida.

E così, lì, tra le stoppie – che non sono un caso, ma un microhabitat preciso – le si raccoglie da sempre. C’è chi le prende per sé, chi le vende ancora oggi nei mercati ambulanti, e chi aspetta le sagre paesane per gustarle come una volta. A Corigliano d’Otranto, per esempio, c’è la famosa Sagra della cuzzeddhra pizzicata, che ogni anno le celebra a dovere.

Ma come si preparano? Eh, la ricetta è più semplice di quanto si pensi. Si lavano bene, si scartano quelle morte – perché anche qui, la selezione è importante – poi si mettono in acqua fredda, si accende il fuoco e si aspetta che bolla. Da quel momento, dieci minuti e via: si schiumano, si scolano, si salano abbondantemente e poi... e poi arriva l’origano. Non un origano qualsiasi, ma Origanum heracleoticum, quello selvatico che cresce tra le pietre del Salento, che profuma d’estate e di vento.

Ecco, a quel punto non resta che coprirle, lasciarle riposare e attendere. Perché, come in tutte le cose buone, anche qui serve pazienza.

Ora, qualcuno potrebbe chiedere: “Ma è davvero una tradizione?”. La risposta è sì, e non lo dico solo io. Lo dicono i libri, i documenti, i ricordi. Nel “Puglia dalla Terra alla Tavola” (Mario Adda Editore, 1979) già si parlava di questo piatto, e ancora prima, nell’Almanacco Salentino 1968-69, si raccontava di come queste bestiole, in assenza di carne o pesce, diventassero l’unica fonte accessibile di proteine. Lo conferma anche la scienza alimentare: la carne delle chiocciole è povera di grassi, ma contiene proteine ad alto valore biologico, oltre a sali minerali come calcio, ferro e magnesio.

Da oltre 25 anni, se non di più, in molte comunità del leccese si cucina, si tramanda, si celebra questa pietanza come patrimonio identitario. E in un mondo dove tutto si dimentica troppo in fretta, sapere che certe abitudini resistono, è già una vittoria.

In fondo, come dicevo sempre: le cose semplici sono le più difficili da dimenticare. Le cozze piccine allu rienu non hanno l’aspetto dei piatti da copertina, ma hanno dentro la fame, l’ingegno, l’estate salentina e il profumo delle radici. E a pensarci bene, è già tanto.

 

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