L’agricoltura europea al bivio
di Antonio Bruno
Bruxelles sembra camminare su un filo teso tra due fuochi: da una parte il richiamo irresistibile dei mercati globali, dall’altra la fragile realtà dei nostri campi, esposti ai capricci del clima e alle oscillazioni dell’economia.
I pochi agricoltori rimasti osservano la scena da lontano, sospesi tra speranza e timore, come equilibristi che temono ogni improvviso colpo di vento, sorretti solo dal cavo dell’assistenzialismo, finanziato con i soldi dei cittadini europei.
All’orizzonte si staglia l’accordo con il Mercosur — Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay — come un ombrello prima della tempesta. Bruxelles tenta di conciliare apertura e prudenza: clausole di salvaguardia immediate, interventi rapidi in caso di crisi di mercato, promesse di protezione per gli agricoltori.
Un patto tra modernità e cautela, dunque, con il sorriso di chi sa che i cavalli del commercio galoppano veloci, ma qualcuno deve pur tenere le briglie. Tuttavia, come spesso accade, è impossibile fermare chi produce a prezzi tanto bassi da spazzare via ogni concorrenza. Gli agricoltori italiani, incapaci di competere con quei costi, restano così condannati a sopravvivere grazie ai miliardi di euro di sussidi pubblici, più che al frutto del proprio lavoro.
E poi c’è il clima, che non ammette compromessi. Gelate, grandinate e piogge torrenziali hanno lasciato cicatrici profonde nei campi di mezza Europa. I cinquanta milioni di euro del fondo agricolo di riserva rappresentano un gesto simbolico ma necessario: un piccolo bastone tra le ruote della sfortuna.
La politica mostra qui il suo volto più concreto: riconoscere la fragilità dei sistemi agricoli e tentare di sostenerli, anche solo per qualche stagione.
Sul piano amministrativo, i conti sono in ordine, ma la semplificazione dei fondi agricoli resta un esercizio di equilibrio. Rendere la burocrazia più leggera senza perdere il controllo è come camminare su un tappeto elastico: servono piede fermo e sguardo lucido.
Manca però il coraggio di chi finanzia l’agricoltura senza assumersi la responsabilità di produrre davvero. Perché non pensare a un ente pubblico capace di coltivare direttamente, distribuendo dividendi ai proprietari dei terreni e assumendoli come lavoratori? In fondo, li paghiamo già noi attraverso la fiscalità generale.
Le fratture non sono solo economiche, ma anche geopolitiche e sociali: l’accordo con il Marocco e la questione del Sahara Occidentale ricordano che la politica agricola non si nutre solo di raccolti, ma anche di diritti e responsabilità.
E poi c’è il monito della scienza: il principio “One Health” ci insegna che non può esserci sostenibilità senza salute, né cibo sicuro senza rispetto per animali e ambiente. È un invito semplice e complesso insieme: produrre significa custodire, non solo guadagnare.
Per l’Italia, le ricadute sono immediate — olio, vino, frutta, carne. Le clausole di salvaguardia possono offrire protezione, i fondi straordinari possono aiutare, ma il futuro si costruisce su innovazione, digitalizzazione e agricoltura rigenerativa. Chi saprà adattarsi resisterà agli shock climatici e alle oscillazioni dei mercati, trasformando la sfida in opportunità. E chi meglio di un ente pubblico può garantire tutto questo?
Bruxelles manda un messaggio chiaro: l’Europa vuole restare una potenza agricola, ma sa di non poterlo fare come in passato, perché le manca il coraggio di produrre in prima persona.
Tra commercio e clima, tra protezione e apertura, tra sostenibilità e reddito, si gioca la partita più difficile: trasformare i nostri sistemi alimentari senza lasciare indietro nessuno.
Un filo tra due fuochi, certo — ma con lo sguardo fisso al futuro. Perché l’agricoltura europea non può permettersi di inciampare.