LA MEMORIA DISTILLATA
San Cesario di Lecce e l’anima alcolica di un paese che fu industria
di Antonio Bruno
A San Cesario, le mattine odoravano di vinacce. Era vapore e alcol nell’aria, un respiro industriale che pareva salire dalle viscere stesse della terra salentina. Un’architettura che oggi sopravvive solo come guscio, quella della Distilleria De Giorgi: torre, ciminiera, silenzi. Eppure lì, per quasi un secolo, si fece impresa. Vera, solida, onesta.
Nel cuore del paese, tra via Vittorio Emanuele III e via Ferrovia, si allungava questo gigante di pietra e ferro: un intero isolato cresciuto come organismo vivo, espandendosi nel tempo, acquistando terreni, allargando spazi, incorporando sogni. Era il 1906, forse prima ancora, quando tutto iniziò da un piccolo locale in piazza. Vito e Nicola, mani nella materia viva delle vinacce, occhi nella possibilità. Solo un anno dopo, medaglia d’oro alla prestigiosa Esposizione di Siena. San Cesario entrava così nella mappa industriale d’Italia.
La distillazione non era solo tecnica. Era sapienza. Era intuizione. Era economia circolare ante litteram: dalle vinacce si estraeva alcool, i residui alimentavano le caldaie. Il vapore correva nei tubi, i profumi si arrampicavano nei cortili. Le giornate iniziavano presto e finivano al tramonto, ma la fabbrica non dormiva mai. E poi i liquori, gli sciroppi, le essenze profumate che attraversavano le stagioni. L’anisetta che forse, secondo leggenda orale, qualcuno si portava via per sé, a fine turno. Ma chi può dire quanto fosse verità e quanto affetto?
Nel 1920 lo stabilimento si espandeva, su progetto dell’ingegnere Giovanbattista Forcignanò. Nuovi macchinari, nuove vasche, nuove visioni. La fabbrica diventava un paesaggio, un orizzonte che si stagliava sul cielo basso del Salento. Era modernità rurale, senza retorica: dentro il ferro, fuori le voci. Dentro la tecnica, fuori l’etica del lavoro.
Il pubblico e il privato si sfioravano. Gli operai non erano numeri, non erano automi. C’erano relazioni. C’era rispetto. Le case di proprietà della famiglia De Giorgi affittate a pochi soldi, le amicizie che attraversavano i ruoli. Nessun padrone col monocolo, nessun "capo macchina" a cronometrare il tempo umano. Era una fabbrica, certo. Ma fatta di carne e di fiducia. Le pause erano racconti. I cortili, piccoli teatri di paese.
Questa era San Cesario: un paese che viveva attorno a una colonna di vapore, un paese che imparava l’economia industriale respirandone l’odore. E non era sola. Erano cinque, un tempo, le distillerie del paese. Ognuna con il suo ritmo, la sua musica. Un distretto, prima che esistesse la parola. Un'eccellenza non ancora celebrata.
Perché è finita? Perché non c’è più?
Non fu uno scandalo. Non un crollo rumoroso. Forse solo il tempo che muta, i mercati che si accartocciano su se stessi, le distillerie che chiudono una dopo l’altra: Vergallo, Pistilli, De Bonis. E la De Giorgi, che distillò fino al 1987, rimase impigliata nella ragnatela della crisi. Qualcuno parla di fallimento, altri di stasi. Qualcuno, romanticamente, di addio. Ma in fondo era l’Italia che cambiava: la distillazione artigianale cedeva il passo alla produzione industriale concentrata, le vinacce non bastavano più a sostenere il sogno.
Eppure non fu mai un addio pieno. Il corpo della distilleria è rimasto lì, come un animale addormentato. Dentro, i macchinari aspettano. I documenti dormono. Le caldaie sembrano ancora calde. E la torre, quella torre neoclassica, sembra ogni tanto emettere un sospiro.
Il Comune ha acquistato il sito e sogna un museo. Sarebbe giusto. Sarebbe necessario. Perché a San Cesario l’alcol non era solo sostanza, era spirito. Un “piccolo impero” a conduzione familiare che dialogava con i grandi marchi italiani – Ramazzotti, Martini, Buton – ma soprattutto con il suo territorio. La De Giorgi non era una multinazionale, era una comunità. Fatta di mani, di pause caffè, di turni di notte e mattinate di nebbia alcolica.
La musealizzazione non dovrebbe essere solo recupero. Dovrebbe essere restituzione. Di una memoria industriale che è anche antropologica, sociale, politica. Perché qui, a San Cesario, si è fatta l’Italia del lavoro e dell’intelligenza manifatturiera. Si è fatto un modello.
Forse un giorno, passando tra quelle mura, sentiremo di nuovo il vapore farsi memoria. Forse allora davvero, come in un origami salentino, la storia prenderà forma. Ma sarà una forma lieve, precisa, giusta. Sarà la forma della gratitudine. E allora – forse – sentiremo il battito lento di un'antica caldaia, come un cuore che non ha mai smesso davvero di battere.