Il paradosso del “filtro”: quando la selezione diventa cecità


di Antonio Bruno

Si dice: selezionare è necessario. Eppure, la parola “selezione” è scivolosa come un coltello lucido: promette efficienza e produce talvolta mutilazioni. Il “semestre-filtro” per Medicina — questa nuova liturgia dell’accesso — nasce con l’intenzione di misurare merito e competenze; finisce per rivelare, invece, una contraddizione di sistema. I dati sono impietosi: idoneità attorno al 20% in Biologia, poco meno in Chimica, e il crollo verticale in Fisica (circa 10%). A Milano Statale, Bologna, Catania, Bari, Palermo, Milano-Bicocca la geografia del fallimento è uniforme. Non un’anomalia locale, ma un segnale nazionale.

La ministra assicura — e non abbiamo ragioni per dubitarne — che non vi siano state copiature di massa né controlli allentati. Benissimo. Dunque il problema non è morale, ma strutturale. È il dispositivo stesso che non funziona. Quando in una procedura selettiva i “non idonei” diventano la maggioranza schiacciante, non siamo più di fronte a una prova che discrimina qualità, ma a un meccanismo che esclude in blocco. La selezione si trasforma in una barriera opaca, che non illumina il merito ma lo seppellisce sotto una coltre di casualità, disallineamento curricolare, diseguaglianze pregresse.

Il paradosso si compie quando, proseguendo così, gli idonei rischiano di essere meno dei posti disponibili. Che cos’è, allora, questo filtro? Un setaccio che trattiene più acqua che sabbia. L’università non sceglie i migliori: rinuncia a formarli. Non indirizza: respinge.

Qui sta il nodo filosofico — e politico — della questione. L’università o è luogo della formazione o è ufficio di smistamento. Se diventa la seconda, è già morta come università, anche se respira come istituzione. Le medie intorno alla sufficienza — 21 in Fisica, 21,2 in Chimica, 21,9 in Biologia — non parlano di una generazione meno capace; parlano di una scuola disallineata, di un ingresso progettato come trappola più che come prova, di un’idea di sapere che confonde l’eccellenza con la rarefazione.

Il mondo offre casi di studio istruttivi. Là dove l’accesso è aperto e la selezione avviene in itinere, i sistemi reggono. In Francia, il primo anno (ora riformato) ha mostrato che l’imbuto all’ingresso produce ansia, ripetizioni, costi sociali; le riforme successive hanno cercato di distribuire la selezione lungo il percorso, accompagnandola con tutoraggi e orientamento. In Germania l’“Abitur” non è una ghigliottina improvvisa, ma l’esito di un percorso; nel Nord Europa l’accesso è ampio e la formazione è il vero filtro, non il quiz iniziale. Negli Stati Uniti, l’accesso al college è relativamente inclusivo; la selezione avviene attraverso il lavoro, la valutazione continua, il supporto mirato. Non perché siano più buoni, ma perché hanno compreso una banalità: la qualità nasce nel processo, non nel tornello.

Chi teme che l’apertura totale sia una resa all’approssimazione confonde il caos con la democrazia del sapere. Iscrivere tutti coloro che desiderano studiare Medicina non significa abbassare l’asticella; significa spostarla dove produce senso: dentro il percorso, non all’ingresso. Significa investire in didattica, laboratori, tutor, valutazioni serie e progressive; costruire soglie sensate invece di muri ciechi. La selezione deve essere trasparente e formativa, non una roulette russa di quesiti decontestualizzati.

L’obiezione è nota: le risorse. Ma le risorse si trovano quando l’obiettivo è chiaro. Se a un Paese mancano medici, non si organizza un gioco a eliminazione; si organizza una politica industriale del sapere. Più cattedre, più reparti-scuola, più borse, più specializzazioni. L’alternativa è ipocrita: finta severità oggi, carenza strutturale domani.

Il “semestre-filtro” è figlio di una cultura che teme il numero e idolatra l’eccezione. Ma la medicina non ha bisogno di eroi isolati: ha bisogno di comunità competenti, diffuse, responsabili. L’Italia non si curerà con un’élite ridotta all’osso; si curerà con una università che cura, cioè che forma davvero.

Iscriviamo tutti. E poi pretendiamo moltissimo. Questa è l’unica selezione che merita il nome: quella che non esclude prima di insegnare, ma insegna per poter escludere — quando è giusto — senza tradire la propria missione. Non è un atto di indulgenza; è un atto di verità.

 

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