Il cappero che mise d’accordo tutti
di Antonio Bruno
Verde brillante, pungente, profumato: il cappero di Racale non è soltanto un bocciolo da mettere sotto sale, ma una storia da tramandare. Per decenni, nel basso Salento, intere famiglie hanno passato le estati a raccogliere quei piccoli tesori, chinandosi sulle piante spontanee come se fosse un rito segreto. E forse lo era davvero: un rito di appartenenza, di fatica e di speranza.
Ora quel cappero ha un riconoscimento ufficiale, che lo eleva da semplice ingrediente a simbolo di un’identità collettiva. Non è un titolo nobiliare, ma un’etichetta che serve a dire: “Questo siamo noi”. Perché quei boccioli hanno fatto molta più strada di quanto si creda: dalle isole vulcaniche alle tavole chic del Nord, senza mai perdere il loro sapore deciso né la loro umile origine.
Ogni comunità ha bisogno di un totem che la racconti. Per Racale, quel totem ha la forma di un piccolo fiore non ancora sbocciato, raccolto a mano, custodito nelle “terre rosse” che tingono il paesaggio. Un emblema agricolo che diventa risorsa, e forse persino promessa: oggi è il cappero, domani chissà, magari un pomodoro. Ma l’idea resta la stessa: prendersi cura di ciò che ci rende unici.
E mentre in giro per il mondo qualcuno discute di globalizzazione e di identità, a Racale basta assaggiare un cappero per sentirsi a casa.