Il batterio dell’imprevidenza

di Antonio Bruno

C’è un virus che si diffonde più in fretta della Xylella: quello della sicumera. Non attacca gli ulivi, ma le teste — soprattutto quelle che si credono a prova di smentita.

Qualche anno fa, quando il Salento cominciava a tingersi di marrone, qualcuno giurava che la peste degli ulivi si sarebbe fermata lì. Il batterio, dicevano, non avrebbe mai scalato il tacco dello Stivale: troppo difficile, troppo lontano, troppo tutto. E se quegli alberi secolari morivano, la colpa era dei contadini svogliati, incapaci di curare le proprie piante. Insomma, un disastro “fatto in casa”.

Poi le cicaline trasportate dai mezzi di trasporto— quelle vere e quelle delle semplificazioni — hanno portato la Xylella più a nord. Gli ulivi del Barese e del Foggiano hanno cominciato a colorare le foglie di quel rossastro, e con loro anche la certezza di chi, con voce scientifica o politica, aveva rassicurato che “qui non arriverà mai”.

Il bello, o il brutto, è che la realtà non ha bisogno del nostro permesso per smentirci. Le malattie non leggono i comunicati stampa, i batteri non frequentano convegni. Si limitano a fare quello che sanno fare: adattarsi, spostarsi, moltiplicarsi.

Questa storia, più che una lezione di Patologia vegetale, è una lezione di umiltà. Quando la scienza si mescola all’orgoglio territoriale e al bisogno di apparire rassicuranti, rischia di trasformarsi in una profezia autolesionista. La verità non si piega al desiderio che qualcosa “non possa accadere qui”.

La Xylella, nel frattempo, continua a camminare tra le foglie trasportata dalle cicaline ed le auto. Forse non è solo un batterio delle piante: è anche un promemoria per noi umani. Che la conoscenza è preziosa, ma la prudenza è un olio ancora più raro — e spesso dimenticato nei frantoi della vanità.

 

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