"Gallipoli, la Gloria del Rosario e l’Eredità Domenicana"
Antonio Bruno
Ci sono luoghi in Italia che sembrano racchiudere il tempo, stratificandolo in pietra, oro e silenzio. Gallipoli è uno di questi. La sua luce abbagliante si rifrange tra le onde dello Ionio, ma nelle sue chiese — e in particolare in quella dedicata alla Madonna del Rosario — è custodita una memoria più profonda: quella della presenza domenicana, intrecciata indissolubilmente con la storia europea e mediterranea.
Siamo nel cuore del Salento, e nel cuore di una vicenda che affonda le radici in tre date emblematiche: 1221, morte di San Domenico di Guzmán; 1571, battaglia di Lepanto. Oggi nel 2025, più di ottocento anni dopo, ho l’occasione per riscoprire non solo la storia ma anche il significato di un’eredità spirituale e culturale.
Il Rosario dopo Lepanto
Dopo la vittoria della Lega Santa a Lepanto, voluta da Papa Pio V, domenicano e uomo di preghiera e politica, la devozione mariana conobbe un’espansione senza precedenti. La Madonna del Rosario divenne il simbolo della vittoria cristiana sull’Impero Ottomano, ma anche della vittoria interiore, quotidiana, della preghiera sulle paure del mondo. Non a caso, fu proprio questo papa a istituire la festa della Madonna della Vittoria, trasformata poi dal suo successore Gregorio XIII in quella della Madonna del Rosario.
In quella vittoria epocale, che salvò l’Europa da un assedio culturale e religioso prima ancora che militare, i domenicani giocarono un ruolo cruciale: nella predicazione, nell’assistenza spirituale, e nella costruzione di una memoria visiva e teologica destinata a durare secoli.
Un altare parla (più di mille parole)
L’altare maggiore della chiesa domenicana di Gallipoli — intagliato nel legno e rivestito in oro zecchino — è una pagina d’arte e di storia. Vi si trovano statue, medaglioni, simboli e volti. La "vulgata" aveva identificato due personaggi ritratti nei medaglioni come Don Giovanni d’Austria e il monaco agostiniano Herrera. Ma uno studio dello storico Elio Pindinelli, vicepresidente della Società Storica di Terra d’Otranto, rovescia questa lettura: non eroi della cristianità, ma membri di una famiglia locale, gli stradiotti, fedeli servitori del potere ecclesiastico e della Corona spagnola.
La storia si fa allora più minuta, più personale, e non per questo meno importante: è la storia della nobiltà di provincia che si riflette nei fasti barocchi, nella devozione familiare, e nella glorificazione di un’epopea mediterranea.
Don Giovanni, il mistero di un volto
Eppure Don Giovanni ritorna, questa volta forse davvero presente in un affresco, nella sagrestia della chiesa. Un volto armato, ma dai capelli fluenti. Un’armatura, una spada, e una palma della vittoria: non è Santa Caterina da Siena, come qualcuno ha voluto vedere, ma potrebbe essere proprio lui, il vincitore di Lepanto, il fratellastro di Filippo II, il simbolo stesso della cristianità combattente.
A rafforzare questa ipotesi è la figura del vescovo Herrera, già cappellano militare di Don Giovanni, che diventerà in tarda età vescovo di Gallipoli. Nulla accade per caso in quella fase storica: Gallipoli non è solo una perla del Sud, è anche un avamposto politico, economico, strategico. Un luogo dove le navi si radunano, da cui partono per raggiungere la flotta della Lega a Messina, e infine Lepanto.
Le radici di un Impero e la gloria di un Ordine
Nella sagrestia, insieme agli affreschi e alle simbologie mariane, c’è di più: un albero genealogico, quello che lega San Domenico di Guzmán ai sovrani spagnoli e austriaci. Una discendenza leggendaria, certo, ma che rispecchia il sentire dell’epoca: quella di un Ordine che non solo predicava e insegnava, ma che si sentiva parte integrante del destino dei popoli cristiani. Il Guzmán priore del convento — figlio del castellano di Gallipoli — fa dipingere questo ciclo, per celebrare la grandezza della sua stirpe e, attraverso di essa, quella del fondatore dell’Ordine.
Una memoria che non si spegne
I domenicani arrivano a Gallipoli nel 1515, prendendo possesso di un sito monastico già esistente, come accade in molte parti del Salento. E da lì trasformano l’identità del luogo: lo rendono un centro di predicazione, di insegnamento, di arte sacra. Predicano dal pulpito e insegnano dalla cattedra, portando con sé il fuoco di un’idea: quella che la fede va spiegata, argomentata, difesa con la ragione e con la parola.
E oggi? Oggi Gallipoli non dimentica. E non dovrebbe dimenticare nemmeno l’Italia. Perché quella lezione di coraggio, di preghiera, di cultura e di bellezza che i frati predicatori hanno seminato lungo le coste del Sud, è parte integrante della nostra identità. Non è nostalgia, è consapevolezza. È storia. E come ogni storia, merita di essere raccontata.
Bibliografia
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