Edoardo De Candia, l’uomo che parlava con i colori

di Antonio Bruno

C’è stato un tempo in cui Lecce non era una città da copertina, ma un luogo di pietra e silenzi, dove gli artisti veri, quelli che non si facevano notare, camminavano a testa bassa, in punta di piedi. Tra questi, c’era Edoardo De Candia. Un uomo che sembrava uscito da un racconto di Dostoevskij, uno che amava il sole del Salento ma che portava dentro tempeste da nord Europa.

Ho visto le sue opere. Non in una galleria patinata di Milano, ma in una mostra che odorava ancora di fatica, memoria, rispetto. E guardandole ho pensato a quanti De Candia abbiamo lasciato soli, inascoltati. Quanti ne abbiamo deriso, evitato, etichettato come "strani" — salvo poi accorgerci, troppo tardi, che erano soltanto più profondi di noi.

Edoardo non dipingeva per vendere. Dipingeva per respirare. I suoi alberi, le sue marine, i suoi pesci, i suoi cocomeri giganteschi… sono tutto fuorché naïf. Sono grida colorate, urla felici o disperate, ma mai sorde. De Candia era un poeta che non scriveva. Un anarchico senza partito. Un ribelle senza causa, ma con tante ragioni.

Oggi lo celebriamo. Bravi. Ma dove eravamo quando camminava scalzo in riva al mare, con le tele sotto braccio e lo sguardo perso? Dov’era l’arte “ufficiale”, quella dei curriculum e delle mostre internazionali, quando lui veniva cacciato dalle accademie o ridotto a macchietta da chi non sa riconoscere il talento se non porta giacca e cravatta?

Eppure, Edoardo lo sapeva. Sapeva che un giorno qualcuno avrebbe capito. Non cercava gloria, ma verità. E la verità è che certi artisti, come certi amori, si capiscono solo dopo che sono andati via.

Io, modestamente, mi inchino davanti a Edoardo De Candia. E spero che chi oggi studia arte, chi visita le mostre, chi scrive recensioni, si ricordi che tra un pittore e un artista c’è di mezzo l’anima.

E l’anima, Edoardo, ce l’aveva grande così.


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