Ecco il superintensivo in asciutto, l’olivicoltura del domani
di Antonio Bruno
C’era una volta l’ulivo. Quello vero, quello che viveva cento, duecento anni, affacciato sul mare e curvo di saggezza. Lo si guardava e sembrava che avesse ascoltato tutte le preghiere del mondo. Poi arrivarono i tempi moderni, i trattori, la Xylella, il cambiamento climatico, la siccità. E anche gli ulivi cominciarono a tossire.
Ma in Puglia, in un’aula universitaria di Bari, qualcuno decise che la storia non poteva finire così. Quel qualcuno si chiama Salvatore Camposeo, professore e agronomo, che di mestiere fa una cosa molto italiana: cerca di mettere d’accordo la tradizione con il futuro.
Camposeo ha inventato varietà nuove — Lecciana, Coriana, Elviana — nate da incroci studiati in laboratorio e allevate come creature resilienti. La Lecciana, in particolare, ha un carattere tutto suo: cresce poco, produce molto, sopporta la sete e non si lascia spaventare dalla Xylella. Una specie di olivo zen, che fa del poco la propria forza.
L’olivo che non beve
Il progetto più ambizioso del professore si chiama “superintensivo in asciutto”. Detto così sembra un esercizio di yoga agricolo, ma in realtà significa coltivare olivi in filari fitti, ordinati, come un vigneto di precisione, senza irrigazione. Una rivoluzione silenziosa: produrre olio di qualità con meno acqua, meno fatica e più rispetto per la terra.
In un Paese dove metà degli oliveti è in stato di abbandono — perché curarli costa più di quanto renda venderne l’olio — l’idea suona quasi eretica. Ma le eresie, spesso, sono soltanto verità che arrivano in anticipo.
Numeri che parlano chiaro
Oggi gli oliveti moderni coprono circa 5.000 ettari, briciole rispetto al milione totale. Eppure da quei filari ordinati escono oli premiati nei concorsi internazionali, ricchi di polifenoli e dignitosamente Made in Italy.
Gli impianti si raccolgono con macchine scavallatrici, si potano meccanicamente, e persino la concimazione avviene con precisione chirurgica. Si produce di più, si spreca di meno, si conserva l’ambiente.
L’Italia e il suo strabismo
Camposeo lo dice con un sorriso amaro:
“Nei frantoi siamo entrati nel futuro. In campo, invece, siamo ancora nel secolo scorso.”
E ha ragione. Abbiamo imparato a usare i decanter e gli ultrasuoni, ma fatichiamo a lasciare andare le molazze del passato, come certe idee romantiche che non vogliono morire.
Solo che la nostalgia, da sola, non paga i conti.
Per continuare a produrre olio — buono, sano, competitivo — serve una rivoluzione culturale, prima ancora che agricola.
Una rivoluzione fatta di imprenditori che vedono l’olivo come una pianta viva, non come un monumento da venerare.
L’olivo del futuro
C’è chi dice che gli ulivi superintensivi siano troppo ordinati, troppo geometrici, troppo poco poetici. Può darsi.
Ma anche tra i filari dritti come soldatini, il vento di Puglia trova sempre un modo per scompigliare le chiome e ricordarci che la natura, alla fine, non si lascia mai addomesticare del tutto.
Forse l’olivo del futuro non avrà più il tronco contorto del passato, ma porterà dentro di sé la stessa antica testardaggine: quella di chi, anche senz’acqua, continua a dare frutti.
E allora sì, forse il superintensivo in asciutto non è la fine della poesia agricola. È solo una nuova strofa. Scritta con meno romanticismo, ma con più speranza.