Donne, lavoro e inclusione: il coraggio di chiamare le cose col loro nome

di Antonio Bruno

Lecce, 16 settembre – Alle 9.30 del mattino, nella sala consiliare di Palazzo Celestini, si apre l’ennesimo incontro sulla parità di genere. Un incontro che porta un titolo nobile, quasi una promessa: “Parità di genere nel lavoro: donne, lavoro e inclusione”. Titolo lungo, ambizioso, quasi solenne. Ma le parole, si sa, sono facili. I fatti molto meno.

Si discute di restituzione, di moduli, di protocolli. Di un percorso che coinvolge quattro istituti superiori del Salento e che – dicono – servirà a insegnare a ragazze e ragazzi a riconoscere gli stereotipi, a liberarli dai pregiudizi. Un lavoro sacrosanto, non c’è dubbio. Perché gli stereotipi sono più tenaci del cemento armato, e il patriarcato è un muro che si abbatte col martello della cultura e della coscienza.

Ma la domanda è un’altra: fino a che punto le istituzioni sono davvero pronte a cambiare? O si tratta dell’ennesima passerella di nomi e ruoli? Ci saranno i saluti del presidente della Provincia, Stefano Minerva. Quelli dell’assessore regionale alla Formazione e Lavoro, Sebastiano Leo. Ci sarà la consigliera di Parità, Antonella Pappadà, a illustrare progetti e finalità. Ma fuori, oltre le mura di Palazzo Celestini, la realtà è ben più dura.

Perché le donne, nel lavoro, sono ancora intrappolate in un doppio ricatto: guadagnano meno, e lavorano di più. Meno stipendi, più doveri. Meno carriera, più sacrifici. E spesso l’unico ascensore sociale che viene loro offerto è quello domestico: essere brave figlie, brave mogli, brave madri. Ma cittadine libere e lavoratrici a pari dignità? Ancora un’utopia.

Eppure il progetto, finanziato dalla Regione Puglia e premiato come best practice contro il divario di genere, ha il merito di voler partire dalla scuola. Di voler insegnare ai ragazzi che una donna non vale meno di un uomo, che il lavoro non ha sesso, che il talento non porta il marchio di genere. Tre anni di incontri, dibattiti, testimonianze. Un laboratorio che forse può piantare semi. Ma i semi non bastano, se il terreno resta arido.

Si parla anche di inclusione delle persone con disabilità, di accesso a un lavoro dignitoso per tutti. Parole giuste, ancora una volta. Ma se davvero si vuole cambiare, bisogna avere il coraggio di chiamare i problemi col loro nome: precarietà, sfruttamento, discriminazione, paura. Bisogna pretendere che leggi e protocolli non restino carta straccia, ma diventino realtà quotidiana.

Allora sì che la parità di genere smetterà di essere uno slogan per convegni, e diventerà ciò che deve essere: un diritto naturale, ovvio, inalienabile.

Fino ad allora, resteremo qui, a contare i moduli.

 

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