Calimera, 13 giugno 1960. Il sacrificio delle tabacchine bruciate vive

di Davide Tommasi

Dopo 65 anni, un doveroso riconoscimento

Come ogni 13 giugno, da 65 anni, Calimera si ferma. Alle 8.30 il paese si raccoglie nel silenzio per ricordare un dramma che ha segnato la storia del lavoro femminile nel Salento: la tragedia del tabacchificio “Pranzo e Villani”, dove sei giovani donne persero la vita in un rogo spaventoso.

Oggi, il riconoscimento — 13 giugno 2025
Il Salento non dimentica. Calimera, ogni anno, continua a fermarsi. La medaglia al merito civile di oggi non cancella il passato, ma illumina la dignità di quelle vite spezzate e la memoria di un’intera comunità.

E proprio oggi, l’amministrazione comunale — insieme alle massime autorità civili e militari — deporrà una corona di fiori alle ore 18.30, a 65 anni da quel tragico accaduto, per rendere ancora vivo il ricordo di quelle donne. Donne che si prostravano al padrone pur di lavorare, pur di portare a casa un tozzo di pane, accettando condizioni disumane in nome della sopravvivenza.

Non si ricorda solo un incendio. Si ricorda l’urlo soffocato di donne bruciate vive perché lavoravano. Perché erano povere. Perché erano, come gridava quella poesia scolpita sulla pietra, “maledettamente donne”.

Il 13 giugno 1960 un incendio devastò il tabacchificio di Calimera, causando la morte di sei giovani tabacchine. A 65 anni da quella tragedia, il Salento non dimentica: oggi, l’amministrazione comunale, insieme alle autorità civili e militari, deporrà una corona di fiori per onorare la memoria di queste donne che lavoravano in condizioni disumane. Quel tragico evento è un monito sulla mancanza di sicurezza sul lavoro e un omaggio al sacrificio di chi ha perso la vita per un tozzo di pane.

Sei i nomi incisi nella memoria collettiva, sei vite spezzate, sei volti che ancora oggi abitano i racconti degli anziani di Calimera: Luigia Bianco (34 anni), Assunta Pugliese (46 anni), Lina Tommasi (22 anni), Luigia Tommasi (30 anni), Epifania Cucurachi (28 anni), Lucia Di Donfrancesco (32 anni). Quattro morirono subito, due dopo giorni o mesi di agonia.

Un incendio annunciato

Quel giorno, dodici donne si presentarono al lavoro nel magazzino Lefons, dove si effettuavano le operazioni di disinfestazione del tabacco. Un lavoro rischioso, svolto senza le minime misure di sicurezza, con un prodotto — il solfuro di carbonio — altamente infiammabile. Bastò un gesto inconsapevole: un mozzicone di sigaretta acceso dal vice brigadiere addetto alla sicurezza, Berardino Cecchini, e in pochi secondi il magazzino si trasformò in una trappola mortale.

Le fiamme sbarrarono l’unica via di fuga. Alla finestra, una rete metallica impedì alle donne di salvarsi. Le più fortunate furono estratte dai soccorritori, altre tentarono un estremo gesto di salvezza correndo verso una fontanina vicina. Ma il fuoco era più veloce.

“La carne si staccava dall’osso e finiva nel tombino sottostante, sbriciolata come foglie secche di tabacco”, scrisse Antonio Campanelli in una poesia struggente.

Il racconto di Miriam Mafai e il processo senza colpevoli

Quella tragedia, simbolo dello sfruttamento delle tabacchine salentine, conquistò la ribalta nazionale. Miriam Mafai, futura storica firma della sinistra italiana, scrisse un memorabile reportage su Vie Nuove: “Bruciate vive sulla via del tabacco”. Il titolo era già una condanna morale.

Il processo che seguì si concluse senza reali responsabili. Sul banco degli imputati finirono i concessionari, il tecnico, l’addetto alla sicurezza, l’ufficiale sanitario. Tutti beneficiarono di attenuanti. Alla fine, due anni di reclusione. Troppo poco, quasi una beffa.

Le tabacchine, schiave invisibili dell’economia salentina

All’epoca, l’economia del Salento girava intorno al tabacco. Migliaia di donne — circa 40mila negli anni Cinquanta — lavoravano in condizioni durissime per pochi spiccioli. Senza tutele, senza sicurezza, senza diritti.

Entrare nei tabacchifici significava una promessa di dignità e speranza per le donne delle classi popolari. Una speranza che il rogo del ’60 trasformò in condanna.

Il lamento di un’intera comunità

È il 13 giugno del 2018 e un lamento funebre si diffonde ancora sulle strade di Calimera. Sono passati cinquantotto anni da quel giorno maledetto, e se il passaggio inesorabile del tempo può aver sbiadito i ricordi, onnubilato le immagini, confuso le parole nella memoria, la ferita non sarà mai completamente rimarginata.

Ancora oggi quella tragedia collettiva continua a rivivere tra le parole di chi ne fu testimone, di chi ancora piange l’assenza di una madre, di chi cammina lentamente tra i viali del cimitero del paese, di chi scava tra gli archivi e rilegge la vicenda tra le fotografie ingiallite e i titoli in grassetto dei giornali dell’epoca.

Quella storia continua a essere raccontata anche attraverso il documentario ArseVite, di Alberto Giammaruco e Christian Manno, accessibile gratuitamente sul sito di Futuro Arcaico, e arricchito dal libro Nel dominio del tabacco di Maria Concetta Cappello (Kurumuny Edizioni). Un’opera che è omaggio alle sei donne di Calimera, ma anche a tutti i caduti sul lavoro, spesso vittime di negligenze e disattenzioni.

Così accadde anche a Calimera: per una fatale scintilla, una sigaretta gettata dal brigadiere Bernardino Cecchini, colui che avrebbe dovuto garantire sicurezza durante le operazioni pericolose di disinfestazione.

Quelle stanze, sigillate ermeticamente per rendere più efficace il veleno, diventarono trappole mortali quando le boccette di solfuro di carbonio presero fuoco. Quelle donne morirono vestite a festa: era il giorno di Sant’Antonio.

ArseVite ha cercato di scavare, con tutta la discrezione possibile, nella memoria dei protagonisti e dei testimoni di una terribile tragedia, per rendere un servizio alla memoria di un’intera comunità ancora molto scossa da questo evento tragico.

Era il 13 giugno del 1960, e la tabacchicoltura era presente in tutti i centri del Salento. Quel giorno, in seguito a delle operazioni di solforazione portate avanti dalle tabacchine, operaie non preposte a questo scopo, si sviluppò un terribile incendio, causato da un incauto lancio di un mozzicone di sigaretta all’interno degli ambienti già saturi di solfuro di carbonio, dove rimasero intrappolate dodici donne, sei delle quali morirono.

Allora come oggi, il tema del lavoro nero, la mancanza di sicurezza sui luoghi di lavoro e il problema dell’emigrazione sono temi scottanti che toccano il Salento.

Il dovere della memoria

Il documentario e il libro danno dignità alle tabacchine, ai loro sacrifici, al loro senso di abnegazione che ha scritto le pagine della storia del Salento. Scavano nelle tante verità mai dette, nei silenzi e nella rassegnazione di chi è costretto a subire, per fame, per necessità.

Maria Concetta Cappello accompagna gli spettatori nella ricostruzione storica, mentre l’avvocato Gabriele Russo legge le carte del processo. Alle voci rotte dei testimoni si alternano le letture degli attori: le lettere inviate al prefetto da Lucia Di Donfrancesco durante la lunga agonia prima della morte; le invettive di Giuseppe Calasso, le parole accorate dell’urbanista Marcello Fabbri, l’articolo scritto a macchina da Miriam Mafai.

Il racconto si fa coro unico, si amalgama sulle musiche originali di Igor Legari, graffia sulle corde del contrabbasso. È l’ultimo moroloja, il lamento funebre per le tabacchine. Un dignitoso omaggio per chi ha donato la vita in cambio di pane e lavoro.

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