“Amare senza catene: crescere, guarire e camminare insieme”

di Antonio Bruno

Ho visto l’amore più volte di quante abbia visto la felicità. E quasi mai erano la stessa cosa. C’era sempre un terzo incomodo, invisibile, seduto al tavolo delle coppie: il patriarcato. È un ospite che non bussi alla porta, che non chiede permesso, eppure si prende la sedia migliore. Lo riconosci nei gesti più piccoli: un uomo che si sente in diritto di essere servito, una donna che si scusa per essere in ritardo. Lo riconosci nelle frasi dette con leggerezza, come “ma una donna non dovrebbe…”, e negli sguardi pieni di paura quando l’amore sembra una scelta tra sé stessi e l’altro.

Ho incontrato donne che si erano perse nell’idea di dover amare sacrificando sé stesse, e uomini che pensavano che l’amore fosse un diritto acquisito, un dono perenne che non va curato. Li ho visti ridurre la coppia a un copione antico: lei che cerca protezione, lui che cerca una madre, e nessuno dei due trova quello che sperava. Poi arriva la delusione, quella silenziosa, che non fa rumore ma logora tutto. Restano insieme per abitudine, come due stanze vuote che non si lasciano solo perché hanno lo stesso tetto.

E non è colpa loro, non del tutto. È colpa di una cultura che per decenni ha raccontato l’amore come una resa: la donna abbandona la sua realizzazione, l’uomo rinuncia alla tenerezza. Così impariamo ad amare senza conoscerci, chiedendo all’altro di colmare ciò che non è mai stato riempito quando eravamo bambini. Perché è lì che tutto comincia: se non siamo stati amati da piccoli, non sappiamo amare davvero. Non possiamo. E allora cerchiamo, confusi, un amore che ci curi. Ma l’amore non cura, l’amore amplifica quello che sei.

Ho parlato con un amico, un grande professionista, che mi disse: “Io la amo, ma lei mi tratta come un figlio”. E lei, quando la incontrai, mi disse: “Io l’ho sposato perché pensavo mi avrebbe protetta, ma non è così forte come credevo”. Due bambini travestiti da adulti, che giocavano a mamma e papà senza rendersene conto. Quante volte succede? Infinite. La verità è che cerchiamo nell’altro quello che ci è mancato, e quando l’altro non ce lo dà, lo chiamiamo delusione.

Da noi, nel Sud Italia ho visto donne che comandavano in casa, uomini che si facevano accudire come figli e nello stesso tempo pretendevano rispetto come capifamiglia. Un paradosso antico: chiedere amore materno e rispetto assoluto, due cose che non stanno bene insieme. Così la moglie diventa madre, l’uomo diventa figlio, e il desiderio muore. Non sempre, certo, ci sono eccezioni, ma quante coppie vivono davvero un amore libero? Poche. Molte restano insieme per non restare sole, non per scelta. E io mi chiedo: se l’amore è un rifugio dalla solitudine, è ancora amore o è solo paura?

Ciò che ho imparato è che prima di amare un’altra persona dobbiamo imparare ad amare il nostro bambino interiore. Quel piccolo noi che forse non è mai stato visto, abbracciato, ascoltato. Perché se non amiamo ciò che siamo stati, non possiamo amare nessuno. L’amore è fatto di tenerezza, non di piedistalli. Mettere qualcuno su un piedistallo non è amare, è adorare un’idea, non una persona. L’amore, quello vero, è stare alla stessa altezza, vedere l’altro nelle sue paure e dire: “Va bene, resto qui lo stesso”.

Ho visto coppie scoprirlo e rinascere. Come quella signora che un giorno mi disse: “Abbiamo smesso di volerci cambiare. Io ho accettato il suo bisogno di essere ascoltato, lui il mio bisogno di libertà”. Erano insieme da cinquant’anni, e il loro amore non era un sacrificio, era un accordo gentile tra due libertà. È questo che manca oggi: la tenerezza, la capacità di guardarsi e dire “ti vedo per quello che sei, non per quello che vorrei”.

Eppure continuiamo a ripetere gli schemi dei nostri genitori, e dei loro genitori, come se fossimo condannati a cercare sempre la stessa cosa: un amore che ci salvi. Ma l’amore non salva, l’amore accompagna. La salvezza è un lavoro nostro: crescere nell’anima, trasformare la mente, smettere di ripetere i dolori ereditati. Solo quando facciamo pace con il bambino che eravamo possiamo smettere di chiedere all’altro di riempire i nostri vuoti.

Perché l’amore, quando è libero, è diverso: non è abitudine, non è gabbia, non è paura di restare soli. È coraggio quotidiano. È guardare il proprio partner e vedere il suo bambino interiore, proteggere le sue paure senza usarle come armi, essere complice delle sue fragilità invece che giudice.

Ho visto coppie perdersi perché non hanno saputo fare questo passo, e altre salvarsi proprio perché lo hanno fatto. Non perché non avessero problemi, ma perché hanno smesso di recitare il copione del patriarcato e hanno scritto la loro storia. Una storia che dice: non sei mia madre, non sei mio padre, non sei il mio rifugio. Sei la mia compagna, il mio compagno, e io sono qui con te, non sopra, non sotto.

Forse la vera rivoluzione dell’amore è questa: ribellarsi dolcemente. Non con rabbia, ma con comprensione. Non urlando contro, ma creando un nuovo spazio dove l’amore non sia abnegazione per uno e potere per l’altro, ma una scelta reciproca. Dove ci si tiene per mano non perché si ha paura di cadere, ma perché si vuole camminare insieme.

E dopo tutti questi anni di ascolto, di sguardi, di storie confidate tra una pausa e l’altra, io so solo questo: l’amore vero non è un rifugio, è un cammino. Non è perfetto, non è garantito, non è statico. È un atto di libertà. Ogni giorno puoi scegliere di restare o di andare, di chiuderti o di aprirti, di seguire vecchi copioni o di scrivere la tua storia.

E allora forse l’amore, quello vero, non è trovare qualcuno che ti protegga o che tu possa proteggere. È trovare qualcuno che ti tenga la mano mentre affronti la vita, non al posto tuo, ma accanto a te. Qualcuno che ami il bambino che sei stato e che tu possa amare il suo. Qualcuno che, guardandoti, non veda un ruolo, ma una persona. E che tu, guardandolo, possa fare lo stesso.



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