San Martino nel Salento: il brindisi che inaugura l’anno agrario
Di Antonio Bruno
C’è qualcosa di antico e insieme sorprendentemente moderno nel rito dell’11 novembre che si rinnova, anno dopo anno, nella provincia di Lecce. Un giorno che, sotto il pretesto di San Martino, vecchio soldato ammantato di leggenda e vino novello, ci ricorda—sottovoce ma insistentemente—una verità che pare fuori moda: siamo tutti figli della terra, del tempo e dei suoi ritmi non negoziabili.
San Martino, qui da noi, non è solo un santo dal mantello generoso. È un confine immateriale che separa ciò che è stato da ciò che sarà. Una linea tracciata nell’umido autunno, tra un bicchiere di vino appena nato e il profumo delle pittule, le frittelle dell’infanzia, che in ogni famiglia salentina si fanno memoria e rito. È la fine dell’annata agraria: per il contadino, la pagina che si volta, il raccolto che si pesa col sorriso ma anche con un filo d’ansia. Non solo per il grano o per l’ulivo, ma per quell’altra raccolta che è la vita stessa, fatta di semine azzardate e raccolti inattesi.
Mentre nei salotti televisivi i numeri fluttuano e la cronaca di giornata è fatta di polemiche—persino su quanti chicchi di grandine farà la prossima tempesta—qui la scienza e la terra dialogano senza urla: la vigna consegna il mosto, il mosto da qualche giorno si è fatto vino, e il vino—ammettiamolo—ha sempre più saggezza di noi. Perché insegna la pazienza: quella dello stare, dell’attendere, del saper riconoscere che un ciclo si chiude, ma la terra, se accarezzata e non tradita, sa sempre ricominciare.
San Martino, nel Salento, è il Natale dei contadini. Si festeggia senza pacchi regalo, ma con brindisi di gratitudine. Persino l’aria sembra rallentare, concedendo uno scampolo di estate, quasi a voler farci credere che la bontà, ogni tanto, fa davvero breccia nel clima e nella storia. E allora la provincia si riunisce in piazze, trattorie e case, dove il vino novello scorre leggero e le chiacchiere si fanno veri atti di carità: perché offrire un posto a tavola, oggi come nella leggenda di Martino, rimane la rivoluzione più silenziosa e necessaria.
In un tempo che sembra sempre più nemico delle radici, l’11 novembre torna, ostinato, a ricordarci chi siamo: donne e uomini in attesa che la terra dica il suo verdetto, ma capaci—almeno per una sera—di mettere da parte il calcolo per celebrare la fiducia. È nel rito condiviso, nel pane spezzato e nel vino versato che la comunità si ritrova intera: disillusa forse, ma mai così vera.
Perché, come ogni buon vino, anche la speranza ha bisogno di tempo per maturare. E a San Martino, tra una canzone popolare e un brindisi malinconico, ce la beviamo tutta, fino all’ultima goccia.