"Quella volta che la banda suonò per me"

di Antonio Bruno

Conservo in un cassetto del cuore una fotografia sbiadita: io, una sedia di legno traballante, una piazza assolata della provincia di Lecce, e la banda musicale che attacca una marcia di Giuseppe Verdi. Succede da una sessantina d’anni — più o meno — da quando seguo le feste patronali nei cento paesi del Salento. E ricordo tutto.

Ricordo l’odore dell’asfalto rovente, mescolato all’incenso della processione. Le sedie disposte in semicerchio davanti alla cassa armonica. Le vecchiette con il ventaglio, i bambini che si rincorrevano mentre i genitori cercavano di ascoltare. Poi, all’improvviso, il silenzio. Sale sul podio il maestro. Fa un cenno. E la banda parte.

Non era una semplice banda di paese, ma un’orchestra in miniatura. I fiati che cantano, le percussioni che raccontano storie di guerra e d’amore, i clarinetti che sembrano piangere. Avevo già visto orchestre sinfoniche esibirsi al Politeama Greco di Lecce, ma quel suono, lì, in quella piazza, era diverso. Era un grido d’appartenenza. Una dichiarazione d’identità.

Spesso mi capita di pensare che l’Italia vera si nasconda proprio lì: nei piccoli paesi, tra le strade ornate di luminarie, nelle mani stanche dei musicanti che passano da un concerto all’altro, spesso dopo ore di viaggio in pullman.

La banda non è folclore: è cultura. È la prima “radio dal vivo” che la gente abbia conosciuto, molto prima dei podcast, di Spotify, della TV.

Come ha scritto lo studioso Alessandro Portelli, «le bande sono un archivio sonoro della memoria collettiva».
Ecco, quella sera in Salento, la banda mi ha raccontato la memoria di un intero popolo. E io ho ascoltato.

Non so se oggi i ragazzi comprendano davvero cosa significhi suonare in banda. È faticoso, richiede disciplina, pazienza, passione. Non ci sono riflettori, non c’è Sanremo, non ci sono like. Ma c’è l’onore, sì, quello sì: l’onore di tenere viva una tradizione che ha educato alla musica migliaia di giovani italiani e che ha influenzato la nostra musica melodica più di quanto si immagini.

Modugno, Dalla, Mina… quanti dei nostri grandi cantautori sono cresciuti ascoltando quelle note per strada, tra le marce di Bellini e le trascrizioni di Puccini?
Quanti hanno imparato a dosare l’emozione ispirandosi al modo in cui la banda “gonfiava” una melodia, la modulava, la faceva vibrare tra le case bianche dei borghi del Sud?

La banda, oggi, resiste. Ma fatica. Manca il ricambio, mancano i fondi, manca spesso la consapevolezza del loro valore.
E allora lo dico chiaro e tondo: se perdiamo le bande, perdiamo una parte di noi. Una parte fatta di malinconia e bellezza, di rigore e improvvisazione, di amore per la musica come atto collettivo, come dono gratuito alla comunità.

Quelle sere, in Salento, negli ultimi sessant’anni, la banda suonava per il Santo patrono.
Ma io, nel mio silenzio, ho avuto spesso l’impressione che suonasse anche per me.
E per tutti quelli che, come me, sanno che la musica non è solo spettacolo, ma memoria.
E resistenza.

 

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