Nel Salento, Palazzo Arditi custodisce secoli di memoria

Nel cuore pulsante del centro storico di Lecce, tra le curve del barocco e i silenzi sospesi delle pietre antiche, c’è un portone che si apre su secoli di storia. È quello di Palazzo Arditi, in via del Palazzo dei Conti: un luogo dove le stanze non sono semplici ambienti, ma capitoli aperti di una lunga narrazione familiare. Visitandolo, si ha l’impressione di attraversare non solo uno spazio fisico, ma il tempo stesso.

Appena varcata la soglia, si percepisce un’eleganza sobria, nobile ma viva, quasi domestica. In fondo all’androne, una casetta concava – soluzione architettonica tipica dei palazzi nobiliari leccesi – venne costruita da artigiani locali per permettere alle carrozze di girare agilmente all’interno. È un esempio concreto di quella fusione tra estetica e funzionalità che ha caratterizzato la cultura architettonica del Salento tra Sei e Ottocento (Delli, 1973).

Le pareti parlano un linguaggio araldico: stemmi scolpiti, ritratti d’antenati, motti in latino, intrecciati con quelli di altre famiglie nobiliari del Regno di Napoli come i De Giorgi, i Marcucci e i De Donatis – famiglie documentate nei registri nobiliari conservati presso l’Archivio di Stato di Lecce. Tutto sembra indicare un mondo perduto, ma in realtà ancora presente, ancora “abitato”.

In questo luogo si stratificano i percorsi storici di una casata antica, gli Arditi di Castelvetere, che da origini longobarde si trasferirono nel Mezzogiorno, passando per l’Abruzzo fino a stabilirsi nel Salento nel XVI secolo. Da Specchia a Gallipoli, da Presicce a Santa Maria di Leuca, gli Arditi si distinsero in ambito militare, amministrativo e culturale.

Uno degli esponenti più illustri fu Giacomo Arditi (1815–1891), storico, economista, senatore del Regno d’Italia. La sua opera più celebre, La Leuca Salentina (1875), non è solo un trattato erudito ma un progetto politico-culturale. Fu lui a disegnare il lungomare di Leuca e a promuovere il restauro del Santuario di Santa Maria de Finibus Terrae, anticipando il concetto moderno di turismo culturale (Pastore, 2016). I proventi del suo libro vennero in parte destinati a finanziare i lavori, in un gesto che unisce mecenatismo e visione strategica.

Passeggiando per le stanze del palazzo, si scopre lo stemma di famiglia: una fenice che si staglia su fondo chiaro, simbolo di rinascita adottato a partire da un diploma concesso dall’imperatore Carlo V. Il motto inciso – “Post fata resurgo” – risuona come una dichiarazione di resilienza che attraversa i secoli.

Nella biblioteca, tra scaffali ricolmi di volumi rari, spiccano le collezioni araldiche appartenute a Filippo Basile, architetto noto per la sua raffinatezza e per aver lasciato un segno indelebile nel panorama edilizio siciliano e meridionale del XIX secolo.

In una delle sale più intime del palazzo, si può osservare un fortepiano Bechstein del 1847, perfettamente restaurato. Non è difficile immaginare le note scorrere tra le pareti, durante i concerti privati che vi si tenevano nel primo Novecento, spesso con la partecipazione di giovani promesse del panorama musicale, tra cui anche Francesco Libetta, oggi pianista di fama internazionale.

All’improvviso, da una finestra della sala da pranzo si intravede un giardino che cela un segreto antico: rovine romane, probabilmente connesse al vicino teatro romano di Lecce, riportato in parte alla luce negli anni Trenta del Novecento. L’area fu infatti soggetta a esproprio in quegli anni per avviare i primi scavi archeologici ufficiali, oggi ben documentati dalla Soprintendenza (De Giorgi, 1938).

E poi ci sono le tracce più personali, quelle che fanno vibrare la memoria: un presepe napoletano, i ventagli delle zie, quadri notturni firmati da Ercole Pignatelli, artista leccese di respiro internazionale, realizzati per un membro della famiglia. Dettagli affettuosi, ma non minori: essi sono la trama emotiva di una storia più grande, quella di una casa vissuta e amata.

Uscendo dal portone, si ha la sensazione di aver compiuto un viaggio in una Lecce intima e segreta, ma anche in un’Italia che, pur mutando, conserva nel tessuto nobile delle sue dimore storiche la memoria di se stessa. Palazzo Arditi, con le sue ferite e i suoi ori, i suoi silenzi e le sue parole, resta oggi un baluardo della memoria meridionale – un libro aperto scritto con la pietra, che ancora chiede di essere letto.

– Antonio Bruno

Bibliografia

  • Arditi, G. (1875). La Leuca Salentina. Tip. Editrice Salentina.

  • Delli, S. (1973). L’architettura civile in Puglia dal Rinascimento al Barocco. Laterza.

  • De Giorgi, C. (1938). Scavi del teatro romano di Lecce: relazione preliminare. Ministero della Pubblica Istruzione.

  • D’Ippolito, C. (2007). Ferdinando II di Borbone. Il re delle Due Sicilie nella crisi dell'unità italiana. Edizioni Scientifiche Italiane.

  • Pastore, A. (2016). Leuca e il turismo ottocentesco: il contributo di Giacomo Arditi. In Rivista di Storia del Turismo, 5(2), 45–59.

  • Petacco, E. (2002). La Regina del Sud. Mondadori.

  • Archivio di Stato di Lecce, Fondo Nobiltà, fascicoli Arditi, De Giorgi, De Donatis.

 

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