“Le cozze piccinne allu riènu e la memoria del gusto”
C’è qualcosa di straordinariamente rassicurante nelle abitudini che resistono al tempo. Come le cozze piccinne allu riènu, piatto povero solo di apparenza, ma ricco di storia, di cultura, e, se mi permettete, anche di poesia.
In un’Italia che corre — a volte troppo — tra sushi e poke bowl, ritrovare un piatto che si raccoglie tra le stoppie arse dal sole salentino è come aprire un cassetto e sentirne uscire il profumo delle domeniche antiche. Non è nostalgia. È identità. È sapere chi siamo.
Le chiocciole della specie Eupharipha pisana non chiedono molto. Un po’ di origano — quello vero, selvatico, di macchia, che pizzica il naso e sveglia i ricordi — un po’ di sale, e mani sapienti. Si mangiano con lentezza, si succhiano ad una ad una. Non saziano, ma nutrono. Nutrono la memoria.
La scienza ci dice che il consumo di gasteropodi è antico quanto l’uomo stesso. In molti siti preistorici del Mediterraneo sono stati ritrovati gusci anneriti accanto a focolari fossili. Le chiocciole sono state tra i primi alimenti raccolti dai nostri antenati, forse per la loro abbondanza, o forse — io voglio crederlo — per quel sapore minerale e terrestre che sa di umiltà e resistenza. Un articolo pubblicato su PLOS ONE nel 2014 ci racconta che già 30.000 anni fa in Spagna si cuocevano le chiocciole su pietre roventi. È passato un tempo infinito, eppure siamo ancora lì: intorno a un fuoco, con un tegame tra le mani.
Il Salento, terra di pietre e vento, ha trasformato queste piccole creature in un rito. Il nome stesso — “passatiempu” — racconta un modo di vivere diverso: non c’è fretta, non c’è abbondanza, ma c’è cura. Mangiare una chiocciola è un atto di pazienza, un’arte dimenticata.
Ecco perché queste tradizioni vanno custodite. Non solo per il loro valore gastronomico, ma per quello antropologico e sociale. Nei gesti delle donne che le lavano, negli uomini che le raccolgono tra i rovi e le stoppie, nei bambini che imparano il gusto dell’attesa, c’è la memoria di una civiltà contadina che ha saputo trasformare la povertà in cultura.
La Sagra della cuzzeddhra pizzicata a Corigliano d’Otranto non è solo folklore. È una forma di resistenza. Resistenza al fast food, al cibo senz’anima, al sapore omologato. È un invito — garbato, ma fermo — a rallentare, a ritrovare il tempo e il gusto.
Io dico: conserviamole queste usanze. Non lasciamole svanire nei ricordi dei nonni o tra le pagine ingiallite di un Almanacco Salentino. Continuiamo a raccogliere, a lessare, a condire. A raccontare. Perché ogni chiocciola non è solo un boccone. È un piccolo scrigno di storia. Ed è proprio questa storia, oggi più che mai, a nutrirci davvero.
— Antonio Bruno (con la voce dei sapori che resistono)