L’amore delle assenze e il bambino che chiedeva carezze
di Antonio Bruno
Sai, credo che in molte relazioni non amiamo davvero la persona che abbiamo davanti. Ci sembra di sì, ne siamo convinti, lo raccontiamo agli altri e a noi stessi, ma spesso stiamo amando un’idea. Una proiezione. Un sogno che ci è scivolato via dalle mani quando eravamo piccoli e che ancora oggi proviamo a riprendere, usando il corpo e il cuore di qualcun altro.
L’altro diventa un contenitore delle nostre speranze, delle nostre mancanze, dei nostri vecchi dolori. Lo vediamo, sì, ma non lo guardiamo davvero. Lo tocchiamo, ma non sentiamo la sua pelle: quello che percepiamo è la pelle del nostro passato, delle carezze mancate, delle porte chiuse, dei “ti voglio bene” che non sono mai arrivati.
E sai cosa succede? Che vediamo nell’altro qualcosa di familiare. Qualcosa che ci ricorda la mamma che non ci ha amato come avremmo voluto, o il papà che non è riuscito a vederci davvero. E allora quel bambino che vive ancora dentro di noi — sì, quello che credevi di avere lasciato indietro — si sveglia, si alza in piedi e tende la mano verso il partner, chiedendo: “Amami tu come loro non hanno fatto. Proteggimi come nessuno mi ha protetto. Dimmi che vado bene così, che non devo fare niente per meritare amore.”
E così comincia l’illusione. Perché da quel momento, senza rendercene conto, l’altro smette di essere solo l’altro: diventa un simbolo, un genitore immaginario, un amore mancato, una ferita che speriamo possa guarirci. E ogni suo gesto, da lì in avanti, non è più neutro. Se ci ignora per un attimo, risuona dentro di noi il suono antico dell’abbandono. Se tace, non è solo silenzio: è il silenzio di nostro padre che non sapeva consolarci, o di nostra madre che non c’era quando avevamo paura.
Diciamo di amarlo, e forse ci crediamo, ma a volte amiamo solo il sogno di poter chiudere un cerchio antico. Amiamo la possibilità di ricevere, finalmente, quell’amore che non abbiamo mai avuto. Solo che quello non è un compito dell’altro. Non è la sua responsabilità.
Eppure capita a tutti. Anche chi ci sta accanto ci vede attraverso i suoi fantasmi. Ci rincorre non per quello che siamo, ma per quello che rappresentiamo: un’occasione di rivincita, di riscatto, di cura. Sperano che la nostra presenza possa chiudere un dolore vecchio, riparare una ferita che non abbiamo aperto noi. Ma la verità è che nessuno può guarire nessuno al posto suo.
Così, due bambini si incontrano con i vestiti degli adulti. Due dolori cercano di abbracciarsi sperando di guarire, ma spesso si fanno più male. Perché quando capiamo che l’altro non può salvarci, o non può essere chi speravamo, arriva la delusione. E spesso ci si lascia, ci si allontana. E quello che rimane non è solo il vuoto della separazione, ma anche la frustrazione di non aver chiuso quel cerchio, di non aver guarito quella ferita antica.
E allora ci chiediamo: chi abbiamo amato davvero? Chi hanno amato loro davvero? E noi, chi speravamo che fossero? Forse non loro. Forse solo una versione riparatrice della nostra storia.
La guarigione comincia quando riusciamo a guardare l’altro per ciò che è, non per ciò che vorremmo. Quando smettiamo di cercare nel suo volto la mamma che non abbiamo avuto, o il papà che non c’era, o quell’amore che non ci ha scelti. Guarire significa anche guardare dentro di noi e trovare quel bambino che tende ancora le mani e dirgli: “Adesso ci sono io. Sono io che ti amerò come nessuno ha fatto. Sono io che ti proteggerò.”
Questo cambia tutto. Perché quando smettiamo di chiedere all’altro di riempire i nostri vuoti, l’amore diventa libero. Non è più un contratto silenzioso tra due ferite, ma un incontro reale tra due persone. Due adulti che scelgono di camminare insieme, senza promettersi guarigioni impossibili, senza chiedersi di essere ciò che non sono.
E allora l’amore diventa più leggero. Non è più “amami per salvarmi”, ma “amami perché mi vedi”. Non è più “stringimi per chiudere i miei buchi”, ma “stringimi perché vuoi stare con me, non con il fantasma del mio passato”. E se ci accorgiamo che, visti davvero, non ci scegliamo, non è un fallimento. È libertà. È la fine di un’illusione, ma anche l’inizio di una relazione vera, fosse anche solo con noi stessi.
Perché alla fine, nessuno può darci l’amore che non abbiamo ricevuto. Nessun partner, nessun amico, nessun abbraccio. Solo noi possiamo. Possiamo imparare a darci quell’amore, a essere il genitore che non abbiamo avuto, a essere la presenza che aspettavamo da bambini.
E quando ci riusciamo, allora sì che possiamo amare davvero chi abbiamo davanti. Non più come un simbolo del passato, non più come una medicina, ma come una persona. Una persona libera, con i suoi limiti, con la sua storia, con i suoi errori. E possiamo scegliere di amarla o di lasciarla andare, senza catene, senza pretese, senza paura.
Perché amare davvero significa proprio questo: non usare l’altro. Non trasformarlo in un personaggio di una vecchia storia, ma lasciarlo essere protagonista della sua, insieme alla nostra. E, se serve, avere il coraggio di dire: “Grazie per quello che sei, anche se non sei quello che cercavo per guarire. Io ti lascio libero, e mi lascio libero, perché finalmente ho imparato a darmi ciò che chiedevo a te.”
Forse è questo il senso più profondo di amare: smettere di rincorrere qualcuno per colmare un vuoto e iniziare a camminare con qualcuno per condividere un pieno.