L’agricoltura rigenerativa eviti il rischio greenwashing
Autore: Antonio Bruno
Istituzione: Associazione dei Laureati in Scienze Agrarie e Scienze Forestali della Provincia di Lecce
Immaginate un campo. Non quello metaforico delle battaglie politiche, ma uno vero, di terra, radici e lombrichi. Ora provate a visualizzare le mani che lo coltivano: callose, screpolate, piene di futuro. E infine aggiungete un’etichetta verde brillante che recita: “rigenerativo”. Bello, vero? Forse troppo.
L’agricoltura rigenerativa è diventata la nuova frontiera della sostenibilità, la parola magica che tutti vogliono pronunciare. Dai colossi dell’agroindustria alle start-up più visionarie, dalle multinazionali del cibo alle piccole cooperative biologiche, fino a insospettabili aziende di settori lontanissimi dall’agricoltura. Tutti, improvvisamente, si scoprono paladini del suolo.
Eppure, come ricorda Paolo Bàrberi, agroecologo della Scuola Sant’Anna di Pisa, dietro quella parola c’è un mosaico di definizioni, certificazioni e interpretazioni talmente eterogenee da rischiare di svuotarla di senso. Non esiste, oggi, una cornice normativa chiara. Esistono schemi volontari, dal Regenerative Organic Certified del Rodale Institute fino alle esperienze latinoamericane di Jairo Restrepo, che insistono sulle relazioni sociali oltre che sui suoli. Ma esiste anche la tentazione di ridurre tutto a una tecnica, a una ricetta pronta all’uso, a un bollino da appiccicare sulle confezioni.
È qui che il greenwashing fa capolino. Perché se l’agricoltura rigenerativa diventa solo un nuovo slogan per dire “siamo sostenibili” senza mettere davvero in discussione i modelli produttivi dominanti, allora non stiamo rigenerando nulla: stiamo semplicemente riverniciando di verde l’agricoltura conservativa.
Rigenerare significa andare oltre: diversificare i sistemi colturali, ridurre drasticamente gli input chimici ed energetici, riequilibrare i rapporti di forza lungo la filiera, restituendo dignità economica e sociale a chi lavora la terra. In una parola: cambiare.
Non sarà facile, perché ogni attore in campo porta con sé interessi e visioni diverse. Il gruppo di lavoro che l’Uni sta avviando sull’agricoltura rigenerativa dovrà affrontare proprio questo nodo: provare a trovare linee guida comuni, senza ridurre il concetto a una comoda etichetta.
In fondo, la terra ha una memoria che noi cittadini smemorati sembriamo aver perso. Lei sa riconoscere chi la sfrutta e chi la cura. Sa distinguere un campo spremuto fino all’ultima goccia da uno che viene fatto respirare. Sa punire gli imbrogli meglio di qualsiasi authority.
L’agricoltura rigenerativa può essere un’opportunità straordinaria per cambiare il nostro rapporto con il cibo e con l’ambiente. Ma, come in tutte le storie, il lieto fine non è garantito. Dipende da noi. Da quanto avremo voglia di vedere in un campo non solo un’etichetta, ma un patto con la vita.
per approfondire: https://centrostudiagronomi.blogspot.com/2025/10/lagricoltura-rigenerativa-eviti-il.html