La Notte della Taranta lasciata a se stessa

di Antonio Bruno

Da qualche anno, ogni estate, si riaccende il dibattito sulla “Notte della Taranta”. C’è chi vorrebbe che tornasse a essere un rito intimo, comunitario, depositario della memoria di un popolo; e c’è chi, invece, ne difende la veste attuale, quella di grande evento televisivo e di volano turistico. Come se fossimo di fronte a un bivio drammatico, come se l’anima del Salento dipendesse dal palinsesto di una rete nazionale o dal numero di biglietti staccati.

La verità, invece, è che questo dibattito non ha alcun senso.
Perché la Notte della Taranta non ha bisogno di essere incasellata né come “spettacolo per il marketing territoriale”, né come “deposito museale di una tradizione immobile”. La Notte della Taranta è una creatura viva, nata dall’incontro di musicisti, di suoni antichi e di bisogni moderni. E come tutte le creature vive, cresce, cambia, prende strade che nessuno può programmare a tavolino.

Non è la prima volta che un rito popolare diventa spettacolo di massa: il samba a Rio, il tango a Buenos Aires, il flamenco in Andalusia hanno avuto lo stesso destino. Hanno corso il rischio di “svendersi”? Forse. Ma la loro anima, quella che continua a vibrare nelle periferie, nei circoli, nelle feste di paese, non è mai stata cancellata da un palco più grande o da una telecamera in più.

E allora perché pretendere che la Notte della Taranta si pieghi a un ideale astratto di purezza? La purezza non è mai esistita, neppure nel passato. Le tradizioni si sono sempre contaminate, rinnovate, mischiate con la vita di chi le praticava.

Piuttosto, a chi invoca un “ritorno alla tradizione”, viene da chiedere: cosa aspettate a organizzarla voi, una festa tutta vostra, senza sponsor, senza regia televisiva, senza grandi nomi? Perché la memoria non si difende censurando, ma creando. Non togliendo libertà a chi sperimenta, ma moltiplicando gli spazi di espressione.

La Notte della Taranta deve essere lasciata a se stessa. Crescerà, si trasformerà, magari si perderà. Ma sarà comunque la vita a deciderne il destino, non i custodi autoproclamati della tradizione, né i manager della promozione turistica. Ed è giusto così.


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