Il WWF e la scienza tradita dalle buone intenzioni

Autore: Antonio Bruno

Istituzione: Associazione dei Laureati in Scienze Agrarie e Forestali della Provincia di Lecce

C’è sempre un momento, nella storia del dibattito pubblico italiano, in cui le migliori intenzioni finiscono per tradire la realtà che pretendono di difendere. È accaduto ancora una volta con il WWF, e con il suo ultimo report sulla Xylella fastidiosa. Un documento che avrebbe potuto illuminare la discussione su una tragedia ambientale e agricola, ma che si è trasformato in un catalogo di semplificazioni, errori di metodo e vecchie verità riproposte come scoperte.

Sia chiaro: nessuno nega il valore del WWF nella difesa dell’ambiente. Ma quando un’organizzazione con un tale peso mediatico entra in un terreno che appartiene alla scienza sperimentale, ha il dovere di muoversi con il passo dell’evidenza, non con la fretta dell’opinione. Il problema non è la buona fede: è la superficialità.

Nel documento si legge, per esempio, che l’eradicazione della Xylella sarebbe “impossibile” già dal 2015, come se questo chiudesse ogni discussione sulle strategie di contenimento. È vero che l’EFSA l’ha definita “estremamente improbabile” in aree ampie e già infette. Ma omettere i contesti e le variabili — la precocità dei focolai, la gestione dei vettori, la resilienza varietale — equivale a raccontare solo metà della storia. E mezza verità, nel linguaggio della scienza, è spesso una falsità.

Ancora più problematica è la manipolazione dei numeri. Citare lo 0,14% di positività su oltre 260 mila piante come prova della marginalità del batterio è un errore da manuale. Senza indicare i protocolli di campionamento, le sensibilità dei test e le stagionalità del patogeno, quel numero non significa nulla. Eppure, letto così, suggerisce all’opinione pubblica che la Xylella non sia mai stata davvero un problema — una conclusione che nessun laboratorio serio, né italiano né europeo, si sognerebbe di avallare.

Il report, poi, si avventura sul terreno dei “protocolli alternativi” come il cosiddetto Dentamet, citando studi promettenti ma limitati come se fossero prove di efficacia universale. Nulla di male nel segnalare ricerche innovative. Ma spacciare un risultato locale e preliminare per soluzione globale è un’altra forma di disinformazione: più sottile, e dunque più pericolosa.

E così, nel tentativo di “denunciare” le rigidità dell’approccio istituzionale, il WWF finisce per confondere i cittadini e irritare gli scienziati. Gli uni, convinti che la Xylella sia un’invenzione burocratica; gli altri, costretti a difendere ancora una volta il rigore dei dati contro la retorica dell’attivismo.

Non è questa la transizione ecologica che serve al Paese. L’Italia ha bisogno di associazioni ambientaliste che parlino la lingua della complessità, non quella delle scorciatoie. La scienza non è una bandiera da agitare nei talk show, ma un processo lento, autocritico, pieno di dubbi e verifiche. Se il WWF vuole tornare protagonista, deve riconciliarsi con quel metodo, non sostituirlo con la propaganda dei numeri facili.

Altrimenti, la battaglia per la verità ecologica rischia di somigliare a un paradosso: combattere la disinformazione sul clima e sull’ambiente, diffondendola.

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