IL TARTUFO CHE NON SAPEVAMO DI AVERE
di Antonio Bruno dottore agronomo
Siamo in Puglia, nel cuore del Salento. Terra di sole, di mare, di ulivi secolari. Terra di pizzica e di sagre, di vacanze d’estate e piatti da leccarsi i baffi. Eppure c’è qualcosa che, per decenni, ci è sfuggito sotto il naso. Anzi: sotto i piedi. Il tartufo.
Sì, proprio lui. Il fungo pregiato, profumato, che fa impazzire chef e buongustai. Quello per cui in Piemonte si pagano cifre da capogiro. E che, sorpresa, cresce anche qui. Nelle nostre pinete, nei boschi tra Otranto e il Gargano, tra le querce e i lecci delle Murge.
A scoprirlo, negli anni ‘70, non è stato un professore o un politico. È stato un ex poliziotto, Aldo Borgia. Una storia che sembra una puntata di “Chi l’ha visto?”. Un giorno, durante un normale controllo nelle campagne di Otranto, nota dei signori – venuti da fuori – che passeggiano con i cani. Ma non per fare jogging. Cercavano tartufi. E li trovavano. In silenzio, di notte, venivano dall’Umbria, dal Lazio, dalla Calabria. Noi pugliesi, invece, a guardare le stelle.
Ci sono voluti anni, passione, testardaggine. Gente come Giuseppe Lolli e Dario Viva, che non si sono arresi. E oggi, finalmente, si comincia a parlare di Tartufo di Puglia. Giurdignano, Caprarica, Roseto Valfortore: nomi che oggi dicono qualcosa a chi conosce l’oro nascosto nei nostri boschi.
Ma non basta. Lo dice bene la direttrice dell’Associazione Città del Tartufo, Antonella Brancadoro: «Avere tutte le varietà serve a poco se poi non le valorizzi». E ha ragione.
Il problema, lo sappiamo, è sempre lo stesso: ci manca la visione. Si parte lenti, si arriva per ultimi. Mentre altrove si costruisce un’economia intera attorno al tartufo – pensiamo ad Alba o alla francese Périgord – qui ci si rideva sopra. Si parlava di tartufo e qualcuno alzava le spalle. Altri facevano battute.
E invece oggi, con 57 zone mappate, 9 varietà certificate, e un festival come il “Giurdignano Fest” che fa incontrare sindaci, assessori e studiosi, qualcosa si muove. È un’occasione. Un'opportunità vera per i giovani, per gli imprenditori coraggiosi, per chi crede che la terra – se la si conosce e la si rispetta – possa ridarti indietro molto più di quanto immagini.
C’è chi già parla di turismo esperienziale: gente che viene a cercare tartufi nei boschi, che partecipa a una cerca con il cane, che poi si siede a tavola e gusta un piatto semplice, ma con quel profumo inconfondibile.
Ora tocca a noi. Ai comuni, agli enti, agli agricoltori, ai cuochi, ai ragazzi. Serve coraggio, serve fiducia, serve lavoro. Ma soprattutto serve crederci. Perché questa volta, la pepita d’oro non è sotto terra. È dentro di noi. Sta nel sapere trasformare una scoperta in un futuro.
E magari, un giorno, diremo: “Eravamo seduti sopra una miniera, e finalmente ci siamo alzati a scavare”.