Il Rococò salentino

di Antonio Bruno Dottore in Scienze Agrarie

Nardò - Basilica cattedrale di Santa Maria Assunta

Non v’è luogo in tutta Italia, forse neanche in tutta Europa, dove il Rococò abbia assunto una veste tanto singolare, tanto ricca eppure così armoniosa, come accade a Lecce. Qui la pietra calcarea, di un bel giallo dorato, morbida e facile da lavorare, si trasforma sotto le mani dell’artista in un’opera di mirabile ornamento: le facciate si coprono di fregi, di arabeschi e di forme che sembrano danzare sulla superficie delle mura. Certo, a tratti l’arte locale cade nel vezzo, nello strafare, nel manierato; ma è proprio questa esuberanza che dona alla città un’identità inconfondibile, un’impronta indelebile di un’epoca che si fa stile, che si fa cifra.

Lecce, più che una città, è un manifesto della «Firenze del Rococò», come l’ha definita quel grande viaggiatore che fu Gregorovius, e nessun altro luogo in Italia può vantare una tale continuità e coerenza nell’espressione artistica rococò. Qui il barocco non è solo esibizione, ma un soffio antico che si fonde col clima benevolo e col sorriso del Sud, innalzandosi fino a una sorta di idealità, di sublime, che raramente si incontra altrove.

Gli esempi più significativi di questo Rococò salentino sono innanzitutto nelle chiese e nei palazzi che definiscono il volto della città. Il Duomo di Lecce, con la sua facciata riccamente ornata, mostra un Rococò che gioca con le forme classicheggianti innestandovi un ritmo di decorazioni fluidamente eleganti, mentre la chiesa di Santa Croce, vera e propria summa del barocco leccese, esplode in una festa di stucchi e intagli in pietra, una sinfonia di elementi naturalistici e grotteschi che avvolge lo sguardo in un turbinio di dettagli sorprendenti. Non meno emblematico è il Palazzo dei Celestini, con la sua facciata scolpita e la monumentale scalinata che sembrano un invito aperto al trionfo dell’arte.

Fuori dalla città, in Salento, altre gemme confermano la potenza di questa stagione artistica. A Nardò, come notava Dominio Jacono Poli, si percepisce l’influsso della gentilezza toscana: la Cattedrale di Nardò si presenta come un equilibrio sapiente tra forme barocche e una compostezza quasi rinascimentale. A Gallipoli, la chiesa di San Francesco d’Assisi racconta con i suoi interni stuccati e le sue linee sinuose la devozione e il gusto raffinato di un’epoca.

Non solo Gregorovius, ma anche altri viaggiatori e studiosi europei, francesi, tedeschi, inglesi hanno guardato al Salento come a un lembo di Toscana, come a una terra di elezione. Johann Hermann von Riedesel, barone prussiano e corrispondente di Winckelmann, fu tra i primi a dedicare attenzione a questa parte d’Italia, trasmettendo al mondo le meraviglie di una Magna Grecia che non si spegne mai. Nel XIX secolo, con la diffusione di studi e racconti di viaggio, da Janet Ross a Charles Yriarte, la Terra d’Otranto si è imposta come meta imprescindibile di un turismo intellettuale e artistico che ha voluto leggere nei monumenti non solo la storia locale, ma un’eredità culturale europea.

Questa tensione verso una valorizzazione scientifica e al tempo stesso romantica del Salento ha segnato profondamente la sua fortuna critica. È un percorso che congiunge la consapevolezza storica con la nostalgia di un passato ideale, senza campanilismi ma con un autentico senso di italianità plurale e aperta al mondo. Il Salento, così, diventa simbolo di una bellezza che è insieme esuberanza mediterranea e misura classica, un luogo dove la pietra racconta storie antiche e nuove, con la voce di chi sa guardare oltre l’apparenza e intuisce l’anima profonda del tempo.

 

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