Il pollaio d’Italia: troppi galli, nessun contadino
di Antonio Bruno
“Troppi galli nel pollaio”. Non è un detto, è una tragedia contemporanea. Un tempo, entrare in amministrazione per chi si candidava, almeno la prima volta, prima di essere travolto dal delirio di potere, significava umiltà, senso del dovere, volontà di contribuire al bene comune. Oggi significa per tutti, anche per i neofiti: “Ci sono io, tutto il resto deve sparire”. Non è autoritarismo, non è sfiducia: è delirio di onnipotenza. Come sul cruscotto di un vecchio autobus: “Non disturbate il conducente”. Solo che il conducente ha smarrito la strada, e il bus corre verso il nulla.
I colleghi giornalisti? Alice nel Paese delle Meraviglie: incantati da polli e galli, incapaci di vedere la rovina davanti ai loro occhi. Tifano, applaudono, insultano – ma per il bene comune non alzano un dito. La crescita sociale, culturale ed economica è solo un’eco lontana, sepolta sotto il coro dei galli che si contendono il dominio del cortile.
Che fare? L’astensionismo è troppo morbido. Il passaggio cruciale è questo: chi non ha mai votato deve votare una lista di persone che non hanno mai votato, per bocciare gli elettori che hanno votato facendo lo scempio che è sotto gli occhi di tutti. Non degli eletti, non dei galli, ma di chi ha votato in questi anni, di chi ha contribuito a creare questo caos, lasciando il pollaio in balìa dell’arroganza e dell’incompetenza.
Così il pollaio diventa metafora dell’Italia: troppi galli, nessun contadino, e una popolazione che assiste al caos come se fosse uno spettacolo innocuo. La verità è chiara e crudele: non è il gallo accanto il problema, ma chi lo lascia cantare senza sosta, mentre il mondo brucia intorno a lui.
È tempo di smettere di applaudire, di chiamare le cose con il loro nome e di pretendere responsabilità. Altrimenti, il pollaio rimarrà sempre lo stesso: rumoroso, ridicolo, ingovernabile.