Gigli e stendardi: la domenica del santo

di Antonio Bruno

Nei paesi della provincia di Lecce, la domenica della festa patronale era, nel Novecento, più sentita della Pasqua. Il tempo si fermava, la campagna si faceva città e la città tornava paese. Le strade si riempivano di suoni e colori: bande musicali, fuochi d’artificio, stendardi mossi dal vento. E soprattutto, fiori. Sempre fiori.

I preparativi iniziavano settimane prima. Le “compagnie del santo” si riunivano nelle case dei devoti più anziani, tra caffè serviti in tazzine sbeccate e discussioni su quale fosse il tracciato migliore per la processione. I ragazzi, invece, si occupavano delle luminarie: strutture in legno e fili tesi come merletti sopra le strade, con lampadine colorate che accendevano la notte. Intanto, le donne preparavano le ghirlande di garofani e foglie d’ulivo, intrecciandole secondo disegni trasmessi da madre in figlia.

Nel giorno della festa, la piazza diventava un teatro. Gli altari temporanei sorgevano agli incroci, ricchi di candele e vasi. Le statue dei santi, custodite tutto l’anno nelle nicchie delle chiese, uscivano tra la folla. Sorrette a spalla da confratelli in tonaca, vestite a festa, profumavano di cera e petali. Spesso erano addobbate con fiori freschi e fili d’oro: gigli per la purezza, rose rosse per i martiri, gladioli per il coraggio.

Dietro la statua, avanzavano i fedeli. Donne scalze, uomini in giacca scura nonostante il caldo, bambini vestiti di bianco con coroncine di fiori. In molti portavano “li panieri”, cesti colmi di offerte votive: pane, uova, bottiglie d’olio e, sempre, mazzi di fiori legati con nastri. Le offerte venivano poi raccolte ai piedi del santo, tra le lacrime di chi aveva ricevuto una grazia.

Dai balconi, pendevano coperte ricamate, e le finestre si aprivano sulle immagini sacre. Le piante d’appartamento—felci, ficus, clivie, pothos—venivano portate all’esterno, come in un rito d’iniziazione al pubblico. Erano le stesse piante di cui parlava Palumbo: simboli di cura e domesticità, divenute improvvisamente sacre per il solo fatto di trovarsi in processione. Le famiglie le sistemavano all’ingresso, tra ceri e fotografie, segno di rispetto e orgoglio domestico.

A Torrepaduli, durante la festa di San Rocco, si ballava la pizzica anche davanti al santo. A Martano, per Sant’Antonio, si organizzavano gare di fiori: chi realizzava il tappeto più bello davanti all’altarino riceveva in dono una medaglietta benedetta. A Nardò, il carro trionfale di San Gregorio procedeva lento tra due ali di ficus e gerani, seguiti dai botti che scuotevano finestre e cuori.

Quelle feste non erano solo religione. Erano identità, comunità, spettacolo. Come scrive Cazzato, “la festa barocca è un sistema di segni”: il fiore non è solo fiore, ma messaggio. È bellezza che si offre al divino e alla comunità. È il modo in cui il Salento, anche nei decenni della povertà e dell’emigrazione, continuava a raccontare sé stesso.

Nel ricordo di molti, le feste del Novecento restano un momento sospeso. Il profumo del garofano, il suono lontano della banda, i piedi nudi sulla pietra calda. Restano fotografie in bianco e nero, custodite nei cassetti accanto ai rosari. Ma ogni estate, tra giugno e settembre, qualcosa ritorna. Basta un vaso spostato sull’uscio, una ghirlanda intrecciata a mano, il rintocco di una campana. E il Salento, ancora una volta, rifiorisce.


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