Dal Palazzo ai follower. E da noi a loro
di Antonio Bruno
Avevo tredici anni quando cominciai a partecipare a riunioni in cui si parlava di politica. Era il 1970. Non tutti i miei amici erano interessati, ma quasi tutti si informavano, discutevano, si dividevano. Perché la politica – nel bene e nel male – era parte della vita quotidiana.
Oggi non più. I dati del rapporto Istat La partecipazione politica in Italia-2024 raccontano un Paese capovolto. Solo il 16,3% dei ragazzi tra i 14 e i 17 anni e il 34,6% dei giovani tra i 18 e i 24 si informa di politica almeno una volta a settimana. A non informarsi mai sono rispettivamente il 60,2% e il 35,4%. Una voragine generazionale che si traduce in un rifiuto sempre più diffuso di tutto ciò che somiglia al “potere”.
Per i giovanissimi, la politica appare come un’arena di uomini e donne che esercitano dominio, non responsabilità. Un mestiere di casta, fondato sul calcolo, sull’autoconservazione, sull’eterna lotta per il comando. Non vedono più passione civile, né ideali collettivi.
E allora, dove guardano? Verso altri idoli, altre mitologie: il successo facile, i soldi veloci, la visibilità senza merito. I follower al posto degli elettori, gli influencer al posto dei leader. È questo il paradosso: rifiutano la politica perché la identificano con il potere, ma si arrendono a una forma di potere ancora più spietata, quella dell’apparenza e del mercato.
Qui entra in gioco una riflessione di Humberto Maturana: i giovani sono sempre il risultato delle trasformazioni che hanno vissuto nelle relazioni con noi adulti. Non sono “marziani” discesi da un altro pianeta: sono lo specchio delle nostre pratiche, delle nostre incoerenze, dei nostri tradimenti. Se oggi cercano modelli nel consumo, nell’immagine e nel successo individuale, è perché noi – genitori, educatori, classe dirigente – abbiamo consegnato loro un mondo in cui la logica dominante è stata quella della competizione, del possesso, dell’accumulo.
Le statistiche lo confermano, ma i numeri da soli non bastano. Bisogna guardarsi allo specchio: il disinteresse dei ragazzi non è solo colpa loro. È la conseguenza del vuoto che abbiamo costruito attorno a loro, sostituendo il dialogo con la propaganda, la cura con il profitto, il futuro con il presente immediato.
La domanda, allora, non è più soltanto “perché i giovani non si interessano alla politica?”, ma “perché noi adulti abbiamo smesso di offrirgli motivi per farlo?”. Se la politica è ridotta a pura gestione del potere, i ragazzi cercano altrove. Ma se riuscissimo a restituirle la dimensione originaria – la costruzione di un destino comune – forse tornerebbe a sembrargli una promessa.
Perché senza politica si può sopravvivere. Ma senza relazioni, senza fiducia, senza valori condivisi, non si può vivere.