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SAVERIO LA RUINA PER PASSI COMUNI A NOVOLI E RUFFANO

Prosegue, con un doppio spettacolo dell’attore e regista Saverio La Ruina della compagnia Scena Verticale, l’articolato progetto “Passi comuni“, ideato e curato da Factory Compagnia Transadriatica e Principio Attivo TeatroSabato 17 marzo (ore 21 – ingresso 10/8 euro – info e prenotazioni 3277372824 – 3403129308 – 3403769613 –  3200119048 – teatrocomunaledinovoli@gmail.com) il Teatro Comunale di Novoli ospiterà Masculu e FiamminaDomenica 18 marzo (ore 20 – ingresso 10/8 euro – info e prenotazioni 3282233833 – luigicossa@libero.it) al Teatro Paisiello di Ruffano, in collaborazione con l’Associazione Kairos, La Ruina sarà in scena con il fortunatissimo Italianesi (Premio UBU 2012 “Miglior attore” e “Miglior testo italiano”). Passi Comuni, vincitore del bando triennale per lo spettacolo dal vivo e le residenze teatrali della Regione Puglia, è realizzato in collaborazione con Teatro Pubblico Pugliese e che coinvolgerà sino al 2019 i Comuni di NovoliCampi SalentinaTrepuzzi e, in collaborazione con l’Associazione Kairos, Ruffano.

Il drammaturgo, attore e regista calabrese Saverio La Ruina è tra i più apprezzati e premiati protagonisti del teatro italiano degli ultimi anni. Nel 1992 con Dario De Luca fonda a Castrovillari la compagnia Scena Verticale che, dal 1999, dà vita a “Primavera dei Teatri”, uno dei più importanti festival teatrali del sud Italia. Nei suoi spettacoli tocca sempre temi di forte impatto e di attualità stringente. Con “Dissonorata. Delitto d’onore in Calabria”, “La Borto” e “Italianesi” ha conquistato il Premio Ubu. I suoi spettacoli sono ospitati nei principali festival in giro per l’Italia.

Masculu e Fiammina è uno spettacolo di e con Saverio La Ruina con musiche originali Gianfranco De Franco; collaborazione alla regia di Cecilia Foti; scene a cura di Cristina Ipsaro e Riccardo De Leo; disegno luci di Dario De Luca e Mario Giordano (audio e luci); organizzazione Settimio Pisano. L’idea di base è che un uomo semplice parli con la madre. Una madre che non c’è più. Lui la va a trovare al cimitero. Si racconta a lei, le confida con pacatezza di essere omosessuale, “o masculu e fìammina cum’i chiamàvisi tu”, l’esistenza intima che viveva e che vive. Non l’ha mai fatto, prima. Certamente questa mamma ha intuito, ha assorbito, ha capito tutto in silenzio. Senza mai fare domande. Con infinito, amoroso rispetto. Arrivando solo a raccomandarsi, quando il figlio usciva la sera, con un tenero e protettivo “Statti attìantu”. Ora, per lui, scatta un tipico confessarsi del sud, al riparo dagli imbarazzi, dai timori di preoccupare. Forse con un piccolo indicibile dispiacere di non aver trovato prima, a tu per tu, l’occasione di aprirsi, di cercare appoggio, delicatezza. E affiorano memorie e coscienze di momenti anche belli, nel figlio, a ripensare certi rapporti con uomini in grado di dare felicità, un benessere che però invariabilmente si rivelava effimero, perché le cose segrete nascondono mille complicazioni, destini non facili, rotture drammatiche. Nei riguardi di quella madre, pur così affettuosa e misteriosamente comprensiva, si percepisce comunque qualche rammarico, qualche mancata armonia. Ma tutto è moderato, è fatalistico, è contemplativo. In un meridione con la neve, tra le tombe, finalmente con la sensazione d’essere liberi di dire.

Italianesi di e con Saverio La Ruina è uno spettacolo di musiche originali Roberto Cherillo; contributo alla drammaturgia Monica De Simone; disegno luci Dario De Luca; direzione tecnica Gaetano Bonofiglio; organizzazione Settimio Pisano. Esiste una tragedia inaudita, rimossa dai libri di storia, consumata fino a qualche giorno fa a pochi chilometri dalle nostre case. Alla fine della seconda guerra mondiale, migliaia di soldati e civili italiani rimangono intrappolati in Albania con l’avvento del regime dittatoriale, costretti a vivere in un clima di terrore e oggetto di periodiche e violente persecuzioni Con l’accusa di attività sovversiva ai danni del regime la maggior parte viene condannata e poi rimpatriata in Italia. Donne e bambini vengono trattenuti e internati in campi di prigionia per la sola colpa di essere mogli e figli di italiani. Vivono in alloggi circondati da filo spinato, controllati dalla polizia segreta del regime, sottoposti a interrogatori, appelli quotidiani, lavori forzati e torture. In quei campi di prigionia rimangono quarant’anni, dimenticati. Come il “nostro” che vi nasce nel 1951 e vive quarant’anni nel mito del padre e dell’Italia che raggiunge nel 1991 a seguito della caduta del regime. Riconosciuti come profughi dallo Stato italiano, arrivano nel Belpaese in 365, convinti di essere accolti come eroi, ma paradossalmente condannati ad essere italiani in Albania e albanesi in Italia. Ispirato a storie vere.

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