venerdì, Marzo 29, 2024
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Prima nazionale ” La bisbetica domata ” al Teatro Paisiello di Lecce

Factory Compagnia Transadriatica propone in prima nazionale il nuovo spettacolo, firmato da Francesco Niccolini per la regia di Tonio De Nitto, nel quale ritorna ad affrontare Shakespeare insistendo ancora una volta su una lettura corale e visionaria dove la musica e la rima concorrono a restituirci una sorta di opera buffa, caustica e comicamente nera.

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Prosegue la stagione teatrale del Comune di Lecce, organizzata in collaborazione con il Teatro Pubblico Pugliese. Martedì 24 e mercoledì 25 marzo  (ore 21 ) Factory Compagnia Transadriatica propone – in prima nazionaleLa bisbetica domata di William Shakespeare nella traduzione e adattamento di Francesco Niccolini per la regia di Tonio De Nitto con Dario Cadei,Ippolito Chiarello, Angela De Gaetano, Franco Ferrante, Antonio Guadalupi, Filippo Paolasini, Luca Pastore, Fabio Tinella.

La compagnia salentina ritorna ad affrontare Shakespeare dopo le felici prove del “Sogno di una notte di mezza estate” e di “Romeo e Giulietta”, insistendo ancora una volta su una lettura corale e visionaria dove la musica e la rima concorrono a restituirci una sorta di opera buffa, caustica e comicamente nera. Questa è la storia di Caterina, di sua sorella Bianca e di un intero villaggio. Questa è la storia di un villaggio che ha ferito e svenduto un bene prezioso. Questa è una storia che avrebbe potuto essere una favola. Caterina l’inadeguata, la non allineata è la pazza per questo villaggio. Dietro di lei, spigolosa ma pura e vera, un mondo di mercimoni, di padri calcolatori, di figlie in vendita, di capricci lontani dall’amore, di burattinai e burattini non destinati a vivere l’amore, ma a contrattualizzarlo. La nostra Caterina non sta a questo gioco e come in una fiaba aspetta, pur non mostrando di volerlo, un liberatore, un nuovo inizio che suo malagrado potrà costarle molto più di quanto immagini. Ed ecco che la commedia si fa favola nera, grottesca, più contemporanea forse, nel cinico addomesticamento che non è molto diverso dallo spietato soccombere. La tournée della “Bisbetica domata” proseguirà venerdì 27 marzo al Teatro Rossini di Gioia del colle (Ba), sabato 28 marzo al Teatro Il Ducale di Cavallino (Le) e lunedì 30 al Teatro Italia di Francavilla Fontana (Br). Dal 13 al 17 maggio la compagnia tornerà sul prestigioso palco del Teatro India di Roma dopo le quattro repliche di Romeo e Giulietta.

Alcune opere di Shakespeare, quattro secoli dopo, non hanno perso nulla della loro bellezza. Amleto, Macbeth, Otello, Riccardo III, Romeo e Giulietta. Semplicemente perfette. Immense. Altre sue opere, qualche segno di invecchiamento lo presentano. Fra queste, Il Mercante di Venezia e La bisbetica domata. C’è qualcosa che è cambiato nella relazione fra quelle storie e il pubblico. Ai tempi di Shakespeare, Shylock era una personaggio comico e il finale con le 5 libbre di carne da amputare faceva ridere: difficile da immaginare per noi, eppure gli ebrei sono stati capro espiatorio per secoli, tanto in modo sanguinario che come bersagli da deridere. Qualcosa di simile è accaduto con la Caterina della Bisbetica domata. È un personaggio ambiguo e questo lo rende affascinante: permette di leggerlo in modi diversi. Ma, dato che Shakespeare è immenso, se non ci accontentiamo della tradizione più superficiale in cui è invecchiata la nostra Cate, scopriamo che in quella vicenda tutti i protagonisti sono ambigui e macchiati da colpe, come nella Verona di Montecchi e Capuleti. Solo che qui è tutto meno evidente, meno colorito, e non ci sono morti. Al massimo lividi, ma ben nascosti. Non ci nascondiamo dietro a un dito, però: la Bisbetica non è una commedia perfetta. Delle sbavature ce ne sono. Più d’una. Ed è chiaro che in una società profondamente maschilista dove, volere o volare, la donna – femmina e moglie – era soggiogata interamente alla volontà del marito, una bisbetica addomesticata era un bel personaggio comico: intrecciare una storia di travestimenti passioni ed equivoci come quella di Bianca e Lucenzio con quella di Petruccio e Caterina, fatta di ceffoni e doppi sensi all’inizio e botte alla fine, quando la donna perfetta si dimostra essere quella che obbedisce come un cagnolino, faceva della Bisbetica una edificante commedia a lieto fine.
Un po’ quello che è successo per molto tempo con la Locandiera: «Brio, brio, brio!», diceva Eleonora Duse di Mirandolina. Finché Luchino Visconti, con la sua di Mirandolina, dipinta scolorita da Giorgio Morandi e interpretata come una brutta amazzone da Rina Morelli, l’ha trasformata in una donna dalla vita difficile che sopravvive a fatica in un universo di maschi che lei disprezza e usa, senza voler cedere all’innamoramento che la coglie inaspettato. Sì, perché prima o poi l’amore arriva e ti trova impreparata, e pure lei rischia di cadere sotto i colpi dell’amore, di fronte all’ennesimo maschio sciocco e misogino che le capita davanti, il cavaliere di Ripafratta, che in quell’edizione memorabile era interpretato niente meno che da Marcello Mastroianni. Altro che brio: questa è la pietra tombale sul brio.
Il brio lasciamolo ai film superficiali e alle interpretazioni che preferiscono semplificare la complessità delle relazioni e la ferocia dei rapporti umani: se fosse una fiaba, Mirandolina sposerebbe non importa chi ma solo per amore, non per calcolo. Se fosse una fiaba, Caterina si innamorerebbe di Petruccio e Petruccio di Caterina, mentre Battista, il padre della sventurata, avrebbe parole di premura e commozione verso le figlie che vanno in sposa, e invece fa un’asta per il pezzo prezioso (Bianca) e una svendita per lo scarto recalcitrante (Caterina). No, qui nessuno si innamora e commozione non ce n’è nemmeno in fondo al barile.
Quello che trovo stupefacente in questa macchina a orologeria dalla trama non esaltante, è il ritratto spietato dei ricchi, che sono ricchi perché fanno sempre e solo la scelta più giusta rispetto al patrimonio. E guai a chi si sottrae al calcolo. È il destino, questo sì veramente tragico, di Caterina. È antipatica, è manesca, sboccata, qualcuno dice pure pazza. A me ricorda – pur nella totale differenza caratteriale – la Valeria Golino di Respiro: non è adeguata, nel senso letterale, Caterina non si adegua. Dice la verità. Dunque è pazza.
Allora, io e Tonio De Nitto decidiamo di stare dalla parte di Caterina. Anche se è antipatica, anche se è manesca e sboccata. Ma divertente, e involontariamente un po’ infantile. La scena chiave, e involontaria confessione, è quando Caterina lega la sorella e picchia questa finta madonnina infilzata per farle dire chi è l’uomo che vorrebbe sposare: adolescenziale, svalvolata e romantica Caterina, altro che bisbetica. Sogna un mondo in cui ci si sposa per amore e non come una vacca data per l’accoppiamento dal padre padrone. E lo dice!, ci prova, urla la sua rabbia contro il padre magnaccia (non è un Capuleti, ma non vedo grande differenza), e pure contro la sorella che piange e non reagisce. Nella sua ingenuità trasparente, Caterina sbaglia con Bianca: perché la sorellina ha capito tutto, ha compreso che può diventare burattinaia ma solo se finge di stare alle regole del gioco. Bianca decide, e sposa chi le pare, ha fortuna e al tempo stesso sfrutta umori e buoi dei paesi suoi. Invece Caterina vorrebbe riscrivere le regole, dire di no al padre e allo sposo canaglia, costi quello che costi. E – inevitabilmente – gliela fanno pagare. Come a una donna indiana che non accetta di essere violentata. Come a una ragazza pakistana innamorata del giovane sbagliato. Come Giulietta. Ma qui siamo all’opposto della tragedia di Montecchi e Capuleti: là un grande amore, qui le basi di un disamore enorme. Che peccato ridurre tutto a una ragazza che piano piano si innamora del suo carnefice, e tutti vissero felici e contenti.
L’umiliazione di Caterina è totale, la violenza che subisce smisurata, disgustosa e perfettamente pianificata dalla prima battuta di Petruccio: lui – interessato solo dalla ricchezza della famiglia – sa come fare, e sa che la piegherà. Con le cattive, la piegherà. E tutto il tempo della commedia (commedia?!) serve perché lui applichi il piano. Gli serve tempo, e allora Shakespeare ne offre parecchio all’intreccio comico di Bianca e dei suoi spasimanti da quattro soldi, troppo vecchi, troppo timidi, troppo viziati, troppo stupidi. Da un lato della scena si ride, ci si traveste, ci si manda bacini e dichiarazione d’amore (ti vuoi mettere con me? Si No Non so), dall’altro si esercita la violenza, a livelli da incubo: Caterina non può mangiare, non può dormire, i vestiti le vengono strappati di dosso, la luna diventa il sole e gli uomini scambiati per donne. E il peggio accade quando la porta si chiude e noi non vediamo e non sentiamo più. Potrebbe essere un film dell’orrore, di quelli che portano la moglie alla camicia di forza. Ma se di norma al cinema, all’ultimo istante, arriva un principe azzurro che ti salva appena in tempo, qui non arriva nessuno, e Caterina piega la testa, ridotta peggio di un cagnolino: qui Caterina, seduta Caterina, in piedi Caterina, fatti scopare Caterina e ora non mi rompere i coglioni Caterina. Evviva Caterina, finalmente. Ma di Caterina, quella ragazza tutto pepe e rivolta, che sognava di innamorarsi, un marito, un matrimonio e una vita sua, non c’è più traccia. Obbligata all’umiliazione totale, tutti le voltano le spalle: cosa la attende tra le mura di casa Petruccio, è solo un problema solo suo, ormai. Noi qui, dall’altro lato della scena, possiamo fingere di essere felici (Francesco Niccolini).

 

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